Corri, Pinocchio! La letteratura per l’infanzia forse è meglio che resti imprendibile | Run, Pinocchio! Perhaps it's better for children's literature to remain uncatchable

Illustrazioni di Charles Copeland (1904), Carlo Chiostri (1902), Enrico Mazzanti (1892). Pubblico dominio, via Wikimedia Commons.

DOI 10.5281/zenodo.10647126 | PDF 

Educazione Aperta 15/2024

Letteratura per l’infanzia è letteratura/8. A cura di Cristina Bellemo

Come onde sono i versi
Che si spengono alla rima
Quando arrivano son persi
Mentre il mare è sempre prima

Così l’ho detto in versi (Carminati e Tognolini, 2012): ma anche in altre forme, in cento incontri di formazione con insegnanti, ho predicato per decenni anch’io la natura elusiva, sibillina, da Atlante delle Nuvole, della poesia e dell’intera letteratura, per bambini o altri o tutti. Proprio come, in lingue saggistiche e speculative esatte e sapienti, la dichiarano altri interventi di questa discussione. Così esatte quelle lingue, evolute e sapienti, che mi rendono fiero e contento di queste mie brave compagne di via.

Però e perciò non ripeterò anch’io qui quei cammini. Mi avvicinerò alla città da un’altra parte: all’argomento della letterarietà della letteratura per l’infanzia mi accosterò con cammini letterari, non saggistici e speculativi. Con andamenti narrativi, analogici, visionari, larghi e non lunghi, come non lungo più ormai è il mio tempo: ma per fortuna, poiché il tempo non cresce né cala, ora si fa largo. Nel farlo mostra tragitti laterali, divergenti, vie non vedute prima, che riattizzano visioni nuove. E conducono altrove, a conclusioni infine ribaltanti rispetto al tenore concorde di questo consesso: un Minority Report, insomma, una relazione di minoranza [1], che può avere un suo utile dialettico. E cominciamo.

1. Noi siamo i buoni, vero?

Un ricordo di tanti anni fa. Fiera Internazionale di Bologna, dopo un gran cerchio di commemorazione di Gualtiero Schiaffino, morto poco prima. Nelle chiacchiere all’aperto fra gli stand confidai a una collega scrittrice il mio sentimento. Me li guardavo, le dissi, tutti lì, seduti in cerchio: scrittori, illustratori, editori, redattori, studiosi, bibliotecari, librai, promotori d’eventi, insegnanti (cambiate voi nel leggere il maschile sovraesteso: io sono troppo vecchio ormai per farlo). E mi parevano miti, affettuosi, savi, intelligenti: brave persone. Questo è il mio mondo, le dissi contento, e mi pare un bel mondo. Ho attraversato di sbieco e incolume altri mondi: il cinema, la RAI, i festival di libri “per grandi”; ho notizie indirette d’altri ancora: l’università. E in quei reami sempre mi pareva di sentir tirare venti tossici, noiosi, meschini, di cattiveria umana impoverita. Ed ecco, concludevo: io son contento e fortunato, e non so come l’abbia meritato, di vivere e lavorare invece in questo.

La scrittrice collega era una donna scafata, sgamata, sapiente di vita. Deve avermi guardato pietosa come un povero grullo naif. E mi bruciò con un’unica frase: “È così perché non ci sono né soldi né visibilità da spartirsi”.

Ci ho pensato e ripensato, nei giorni e negli anni seguenti. Aveva ragione? Se ci fossero soldi sodi e fama vera in palio, anche noi del Reame Minore Felice ci salteremmo alla gola feroci come quegli altri? Le risposte che mi davo erano varie, mirabilmente armoniose, roteanti. Forse sì. Forse no. Forse noi siamo i buoni [2] perché non siamo mainstream. Forse non siamo mainstream perché siamo buoni. O perché non siamo buoni (che meraviglia la lingua: non siamo capaci) di essere mainstream. Forse queste catenelle di cause ed effetti sono tutte vere insieme, ruotano stupendamente inanellate in cerchi ricorsivi, volubilmente causandosi a vicenda, come il bianco e il nero nel mandala yin e yang.

2. Corri, Pinocchio!

Belle e tenaci sono, fra le altre mie radici culturali, quelle che dopo il liceo classico e l’assidua poesia per quindici anni hanno affondato nei lastricati di piazza Verdi, a Bologna, nel DAMS degli ultimi anni '70, e poi nel teatro. Gianni Celati, docente di letteratura inglese, maestro amato ma non frequentato, intitolava il suo corso su Lewis Carrol Alice disambientata, e ci parlava dell’erranza caotica sacra e puerile di quella storia, da cui poi Radio Alice scaturì; il “traversalismo” di nuove filosofie francesi e piccole riviste locali ci invitava a confonderci e ibridarci fra i territori; Giuliano Scabia, mio docente di drammaturgia amato e devotamente frequentato, ci incantava e frastornava portandoci (anche fisicamente) in giro vorticoso fra teatro, poesia, antropologia, danze e feste patronali dell’Appennino e rimpiattini con la celere fra i lacrimogeni; e giravano precetti carismatici di fonte oscura, del tipo “se ci muoviamo in fretta, non veniamo nella fotografia”.

Questa santa vocazione a fuga, migranza e mimetismo culturale prese forma per me, anni dopo, nella figura carismatica di Pinocchio, che elessi a spirito guida per decenni. Campeggiò in alto nel mio precoce sito web, in un’immagine scontornata rubata a Mattotti: un Pinocchietto che corre a gambe levate, guardandosi indietro e in alto. Perché dietro e in alto lo inseguono senza posa Carabinieri, Cani, Assassini, Gatti e Volpi, padri Geppetti e ogni altra sorta di paradigmi adulti.

Cliccando quell’immagine appariva (tuttora appare) quella che forse è la mia prima filastrocca (1988), allora non ancora “per bambini” ma già compiutamente “filastrocca”. È inedita, dice così:

Pinocchio corre,
Gesù centometrista,
nel belpaesaggio dell'Italia liberista.
Più veloce della vista e della voce,
più veloce del sogno e del disgusto,
battibaleno,
fuori misura,
più che giusto
e più che va. Idiota mercuriale,
colpo partito accidentalmente,
e non lo ferma niente:
non lo arrestano i gendarmi impennacchiati,
non lo tengono i centri handicappati,
non collide con gli elettroni accelerati.
Lui che è figlio di tronchi, è Cristo e croce:
non può essere nemmeno crocifisso.
Ma via che va, a pelo dell'abisso,
sotto il cielo oggettivo del mercato:
è già partito dove è già arrivato,
è già lontano dove non c'è più.
Perché è Gesù.
Perché il suo cuore di somarello corridore
o corre o muore.
E correrà finché c'è posto,
finché ci sono chilometri rimasti.
Dopo, si pianterà nel nostro cuore.
A fare guasti.

Nei miei libri dei decenni successivi Pinocchio ancora avrebbe fatto capolino, sfrecciando in corsa, apparizione incerta, erratico e imprendibile perfino o soprattutto per me stesso: “Non farti prendere, fuggitivo | Fuggi sul bordo del campo visivo | Vola più in là della coda dell’occhio | Corri Pinocchio!” (L’altalena che dondola sola, Fatatrac, 1997); “Babbo Sole fa i colori ai pappagalli | Fa mezzogiorno dovunque senza scampo | E l’occhio vede solo aranci e solo gialli | Solo Pinocchio che corre in mezzo a un campo” (Rima rimani, Salani, 2002); “Ma mentre impallidiscono, Pinocchio | esclama: Nossignori! Io ci provo! | Ho preso fuoco io, fino al ginocchio, | eppure dopo ho corso di bel nuovo!” (Fuoco!, Fatatrac, 2003); et alibi.

Quella primeva filastrocca mantra era intarsiata in un monologo teatrale, perché quello era allora il mio linguaggio. Che la introduceva così:

Ma spesso, a un certo punto della notte, gli uomini perdono l'attenzione all'improvviso, figurano nelle menti corti argomenti febbrili e inconcludenti, guardano in direzioni sbagliate, perdono forza.
Le radio trasmettono allarmi poco chiari.
I cani abbaiano a un ladro che non c'è.
Le donne deste da un sonno approssimato, attraversando l’ansia con la mano controllano i bambini, e i bambini aprono gli occhi e dicono con voci chiare: è passato Pinocchio.

3. E se fosse il contrario?

Pinocchio passa, corridore trasparente, lasciandoci incerti perfino d’averlo veduto. Dopo ogni suo passaggio vanescente tutto pare ritornare come prima, ma così non è. Una minuscola crepa nelle cose – forse quella di cui canta Leonard Cohen [3], da cui entra la luce – ci lascia in dono un’incertezza argentea, che prima o poi fiorisce in luce piena, che illumina le cose e le mostra diverse. Forse diverse. Anche diverse.

Potentemente fiorisce quella luce nelle arti, prismi che la rifrangono in colori: nella letteratura, nella letteratura per l’infanzia degna del nome, nei suoi testi e figure. Con parole stagliate e finali Giovanna Zoboli la addita e rivendica nel saggio che affianca questo. E benvenuta sia per sempre. Però…

Però: se può e deve fiorire quella luce deflessa nelle nostre letterature per l’infanzia, perché non dovrebbe allora nei nostri pensieri? Nelle nostre opinioni sul mondo?

Il dubbio, lo scarto, il pensiero laterale (“e se non fosse così?”), sono potenti motori di ogni arte, e negli stessi identici modi di ogni scienza. Il loro grado estremo, il ribaltamento (“e se fosse tutto il contrario?”) è uno dei tanti trucchi narrativi, con effetto garantito nei millenni dagli arcaici rapsodi raminghi alle IA storyteller. E se fosse il contrario? Se quelli che sembravano buoni si rivelassero poi cattivi, e viceversa? Con le fecondissime sfumature intermedie, ovviamente (e queste vedremo se e come la IA storyteller le saprà articolare).

È così che, dopo decenni di cruccio e protesta, ripetuti vanamente sempre uguali, contro l’esilio della letteratura per l’infanzia dall’olimpo della letteratura madre, mi son ritrovato a pensare: e se fosse il contrario? Se quell’esilio fosse invece una salvezza? Un’oasi faunistica, un’enclave di protezione, un sacrario? Un periferia incantata del narrare, al sicuro dal rombo sordo e assordante della cultura adulta mainstream, letteraria e mediatica, bulimica e onnivora, omologata e omologante, schiacciasassi?

Siamo così sicuri di aver bisogno di essere proclamati “letteratura vera”? Essere oggetto di studi letterari superiori, di tesi di laurea (tante ormai ne ho seguite su di me – sempre, lo so, “d’ambito educativo”), di saggi pensosi, convegni illustri, recensioni sulla stampa nazionale, di premi Strega veri e non Streghine mascherine di Halloween, con annesse discordie e veleni, l’umiliante accapigliarsi col sorriso, il desolato Circo Barnum dei Famosi?

4. Il sussurro della foresta che cresce

Nella mia isola di Sardegna, mezzo secolo fa, condividevo l’indignata ribellione alle “servitù militari”, che sequestravano vastissime lande dell’isola per sparare all’intorno di tutto lontano da occhi spioni. Oggi ci siamo tutti resi conto: quelle vaste stupende scogliere e montagne e riviere, terre serve dei militari, ora sono paesaggi gagliardi e selvaggi, mentre le terre libere intorno a loro son state libere solo di farsi crescere addosso la tigna di esclusivi villaggi vacanze, bassi e larghi, acquattati, mimetizzati nei colori dell’Ogliastra, che non si vedano dagli yacht. “E se fosse il contrario?”. Era il contrario. A volte mirabilmente, impensabilmente, ciò che chiude ed esclude protegge.

Infiniti sono gli altri possibili esempi. Dal ritiro attualissimo e antico (già i latini delle Georgiche lo predicavano) di tanti giovani e adulti, fra cui mia figlia, che dopo aver viaggiato il mondo in Erasmus e progetti di cooperazione scelgono di fare nido umano “sostenibile” in paeselli montani o campagnoli, con relazioni di premuroso vicinato, senza comprare più nulla se non l’essenziale, ciò che non possono coltivare o costruire o riciclare; e tentare la via dell’esempio di prima persona, del “piccolo gesto importante” [4]. Senza mai pronunciare il motto, per non far sogghignare opinionisti scafati e infingardi, della derisa “decrescita felice”. Fanno ciò che gli pare onesto, tutto lì, vanno dove li porta il cuore, qui e ora: domani vedranno.

E ancora: i milioni di ragazzi silenziosi, nascosti, non visti, che non stuprano in branco ma praticano volontariato, altruismo, scoutismo, ambientalismo mite, o studiano e crescono e basta [5]. Il sussurro dell’intera foresta che cresce, eliso e soppresso dal frastuono dei pochi alberi che cadono. Che la foresta poi ingloba e divora per crescere meglio: in silenzio. Sempre che non la radano tutta intera per farne piantagioni sconfinate di banane senza semi, frutti sterili, puro presente.

E ancora, millenni indietro: i giusti che salvano il mondo nelle narrazioni ebraiche, che sono detti Nistarim, i Nascosti, perché nessuno sa chi siano. E secondo alcune versioni, attenzione, leggere bene: loro stessi non sanno di esserlo.

5 . Piccolo è bello?

Dunque “piccolo è bello”? Sconosciuto, celato, ignorato, minore è bello? Scava scava vecchia talpa? La comfort zone delle eterne minoranze?

“Malo hic esse primus quam Romae secundus”, pare abbia detto Giulio Cesare in un minuscolo villaggio della Alpi: meglio essere primo qui che secondo a Roma. Meglio essere uno scrittore chiaro per bambini che uno dei tanti scrittori oscuri per adulti? Un piccolo grande fra i piccoli che un grande piccino fra i grandi?

Non sarà, gratta gratta, solo il vecchio argomento capzioso, il sofisma d’autoassoluzione additato per sempre da Esopo due millenni e mezzo fa con la volpe e l’uva? Non è matura quella letteratura, e io non la voglio?

Attento qui, Pinocchio, guarda bene. Una volpe? Non sarà per caso zoppa, e per quello non può saltare e prendere l’uva? E non ci sarà, guardando bene, poco lontano anche un Gatto? Magari cieco? Occhio, Pinocchio, non farti intrappolare. Sfrangia lo spettro dello sguardo, scarta di lato.

Qui non si tratta di primeggiare o secondare, ma di fare bene e appieno ciò che si fa. Dire bene ciò che si dice, benedire. Benedire il mondo. Perché sia benedetto fra chi legge: grande o piccolo che sia.

Non si tratta di essere riconosciuti come letteratura, ma di esserlo.

L’assalto, la battaglia, sia per quello. Dovranno combatterla in prima persona gli autori che scrivono e illustrano: e contro se stessi. E gli editori che li scelgono e pubblicano: contro se stessi. Che facciano letteratura, se ne sono capaci, piuttosto che protestare d’esserne esclusi. Che già quella è impresa arditissima, quasi disperata. Perché corre sul crinale ineludibile, connaturato a ogni arte, della sconfitta. Della muta desolata constatazione, nota a ogni artefice vero, grande o piccolo, per grandi o per piccoli, della pochezza ridicola del proprio narrare, poetare, disegnare, quando – e lo dice il padre Eliot, un grandissimo:

[…] ciò che c’è da conquistare
Con forza e sottomissione, è già stato scoperto
Una volta o due o tante, da uomini che non si può sperare
Di emulare – ma non c’è nessuna gara –
C’è solo la lotta per ritrovare ciò che è stato perso
E trovato e perso ancora e ancora: e ora sotto condizioni
Che sembrano poco propizie. Ma forse non c’è guadagno né perdita.
Per noi, c’è solo il tentare. Il resto non è affar nostro.

Non è affar nostro se veniamo annoverati fra la letteratura maggiore o i suoi sottogeneri. Noi autori dobbiamo solo fare bellezza, se ne siamo capaci: questo è “our business”. Voi editori dovete scegliere bellezza: quello è il vostro.

Quindi marciamo insieme, stesso cammino? E se invece (passa Pinocchio) non fosse così? Se l’unico vero muro, l’aporia, il deserto che arena il fiume dell’armonia, non stesse tanto fra autori e letteratura, quanto forse fra autori e editoria?

“For us there is only the trying”, dice Eliot. Per noi autori il compito è solo tentare: di fare bellezza, come detto, se ne siamo capaci. In queste pagine ho azzardato la visione contraria, soggettiva e arbitraria, della Terra Protetta. Dove forse possiamo tentare più sereni, di fare quella bellezza. In un posto dove non si vive “under conditions that seem unpropitious”, ma in quella che a me pare, sia pure miraggio, una rete antropica dolce, propizia, un Bel Posto.

Voi editori invece in condizioni poco propizie ci siete sommersi: e sono quelle di un mercato editoriale che minore non è, ma maggiore. E anzi, per l’esattezza, sempre maggiore: come comanda il paradigma industriale occidentale dello sviluppo illimitato, la crescita infelice che va consumando il mondo, miglia infinite praeter necessitatem.

Ecco: noi autori dove stiamo, ci paia gabbia o nido, tentiamo di fare bene il nostro lavoro. Voi editori state facendo bene il vostro?

D’accordo, noi non saremo quella letteratura: però nemmeno questa editoria.

E allora cosa siete?

Sguardo di qua, sguardo di là… Corri Pinocchio!

Riferimenti bibliografici

Carminati C, Tognolini B., Rime Chiaroscure, Rizzoli, Milano 2012.

Eliot T.S., Quattro quartetti, tr. it. di F. Donini [qui adattata da B. Tognolini], Garzanti, Milano 1984.

McCarthy C., La strada, Einaudi, Torino 2007.

Tognolini B., L’altalena che dondola sola, Fatatrac, Casalecchio di Reno 1997.

Tognolini B., Rima rimani, Salani, Milano 2002.

Tognolini B., Fuoco!, Fatatrac, Casalecchio di Reno 2003.

Tognolini B., Abbatiello A., Maremè, Fatatrac, Casalecchio di Reno 2008.

Tognolini B., Filastrocche della Melevisione, Gallucci, Roma 2011.

[1] Correggo qui, e solo in nota, quest’affermazione. Dalla lettura tardiva del contributo di Nadia Terranova, La silvestre libertà dal margine, scopro che questa minoranza non è solitaria. Bene, bene e bene: è sempre un dolce conforto nei cammini solitari e controcorrente trovarsi a dire, con sorpresa forse sciocca e presuntuosa, “Ehi! Anche tu qui?”.

[2] “Noi non mangeremo mai nessuno, vero? – No, certo che no – Nemmeno se morissimo di fame? – Moriamo già di fame – Ma comunque non mangeremo le persone – No. Non le mangeremo – Per niente al mondo? – No. Per niente al mondo – Perché noi siamo i buoni – Sì – E portiamo il fuoco – E portiamo il fuoco. Sì – Ok” (un dialogo fra il padre e il figlio in McCarthy, 2007).

[3] “Ring the bells that still can ring | Forget your perfect offering | There is a crack, a crack in everything | That's how the light gets in” (L. Cohen, Anthem, dall’album The future, 1992).

[4] Una delle mie filastrocche che più di frequente da decenni appare nei testi scolastici conclude così: “Forse non basta, ma devi provare | Se provi, forse, qualcosa accadrà | È un gesto inutile, ma non importa | Piccoli gesti hanno forza infinita | Se ognuno spazza davanti alla porta | La città intera sarà pulita” (Tognolini 2011).

[5] “I giorni son profondi, uno ad uno li pesco | Se mi lasciate in pace, piano piano io cresco” (Tognolini e Abbatiello, 2008).

Bruno Tognolini è nato a Cagliari nel 1951. Da bambino gli piaceva leggere e costruirsi i giocattoli con legnetti, chiodini e spago. Ha cominciato a scrivere quando ha capito, da lettore, che le storie erano come quei giocattoli: poteva costruirsele da sé. E così è diventato scrittore per bambini, a quarant'anni, ma neanche lui sa bene perché: per caso, per raccontare storie alla figlia Angela, perché così poteva scrivere in rima... chissà. Ha scritto libri, dal 1992 una sessantina, ha scritto testi per l'Albero Azzurro e la Melevisione, teatro e canzoni, videogiochi e Rime d'Occasione per chi gliele chiedeva. Ha vinto anche due Premi Andersen, e ne è contento; il suo romanzo, Il giardino dei musi eterni, è stato Libro dell'Anno a Fahrenheit di Radio Tre (prima volta di un libro per ragazzi), finalista del Premio Strega Ragazzi, e vincitore del Premio LiBeR Miglior Libro 2017; i suoi libri hanno venduto in Italia circa quattrocentomila copie, e ne è ancora più contento: però è sempre lì chino sui suoi legnetti e spaghi di parole, perché la storia e la rima più bella, ne è convinto, la deve ancora costruire. Altre notizie e testi su www.tognolini.online e facebook/tognolini.b.