Didattica attiva all’aperto. Alcuni itinerari a senso ludico | Active outdoor teaching. Four playful itineraries

Playful outdoor teaching can be a good opportunity to give pedagogical dignity to entertainment at school. In order to be able to enjoy outdoor school, it may be useful to “plan itineraries”, that is, to pay attention to the steps we take to co-build skills, to the stops we make to deepen what we encounter along the way, to choosing where to go once that we are facing a crossroads. The paper proposes four itineraries for primary school.

Di Pietro, Didattica attiva all’aperto Quattro itinerari a senso ludico , in “Educazione Aperta” (www.educazioneaperta.it), n. 9 / 2021.

PDF: DOI 10.5281/zenodo.5163325


Fare didattica attiva è un modo che ci porta a valutare di situazione in situazione quale possa essere l’ambiente d’apprendimento più adeguato in base al gruppo, al tema che stiamo affrontando, al momento. È un modo che porta a valorizzare anche le “risorse fuori porta” come il giardino e le “risorse oltre la siepe” come il territorio. E questo modo ha qualcosa di ludico.

L’atteggiamento ludico “fa gioco” alla didattica all’aperto. Quando si dice che una cosa “fa gioco” si vuole intendere che oscilla un po’ in uno spazio vuoto che non disturba. Nel fare scuola all’aperto quello spazio vuoto fra ciò che ci aspettiamo e ciò che può accadere è un valido alleato se siamo disponibili a divertirci. Non dobbiamo temere di collegare il divertimento all’insegnamento.

Se diciamo “L’insegnante si diverte a scuola” qualcuno potrebbe dire “e la pagano?”. Sappiamo che talvolta colleghiamo la parola divertimento al non aver voglia di fare qualcosa d’impegnativo. Se diciamo: “l’insegnante oggi a scuola ha fatto divertire i bambini e le bambine per una mattina intera” qualcuno potrebbe chiedere “e poi che avete fatto?”. Questo perché la parola divertimento la colleghiamo anche alla perdita di tempo. E se l’insegnante dice: “siamo stati in giardino tutto il giorno e ci siamo divertiti tanto” cosa si potrebbe pensare? Potrebbe esserci un “corto circuito” causato dal colpo di fulmine fra il divertimento all’aria aperta ed il leggere, lo scrivere e il far di conto. La ludicità non va delegata solamente alla “ricreazione” (tra l’altro parola contraddittoria: da cosa si devono “ricreare” i bambini e le bambine, da quanto viene fatto a lezione?). Per una didattica divertente e attiva occorre dis-imparare diversi modi di fare scuola, diffidare delle mode del mercato, distanziarsi dai tanti cliché del “così fan tutte”.

La didattica ludica all’aperto può essere una buona occasione per dare dignità pedagogica al divertimento a scuola. Divertirsi non significa ostentare felicità e neanche ridere a tutti i costi. Men che meno “scimmiottare” i bambini e le bambine. Se ricerchiamo il significato di “divertimento” ci accorgiamo che ha la stessa radice etimologica di “divergenza”. Divertimento e divergenza sono unite dal “di-vertere” (“volgere altrove”). “Divertere” significa ricercare altri punti di vista, guardare una cosa da diverse angolature. Il divertimento ha a che fare con la creatività, con il trovare possibili soluzioni. Ha a che fare con il piacere che si può trarre da situazioni che divergono da ciò che ci aspettiamo. L’insegnante che si diverte (cioè che accoglie, sostiene e rilancia le idee e le domande dei bambini e delle bambine) influenza positivamente il clima emotivo del gruppo-classe. E oggi sappiamo bene quanto un clima sereno sia fondamentale per attivare apprendimenti efficaci (da non confondere con quelli mnemonici, funzionali al momento).

Un insegnante che di-verte non perde il suo ruolo. Anzi. Le “divertenti divergenze” ci permettono di sperimentare il senso del possibile, di garantire il diritto all’errore, di porsi come esempio di fronte alla risoluzione di un problema, di essere propositivi rispetto alle inevitabili imprevedibilità. Per fare una didattica ludica, afferma Staccioli in Giocare e imparare. Per una scuola di-vertente, ciò che conta sono le “modalità di-vertenti per entrare in gioco con gli altri”[1]. Con un pizzico di ludicità possiamo sentirci a nostro agio anche nel fare scuola all’aperto.

Tre itinerari ludici all’aperto

In ambito scolastico spesso parliamo di percorsi, ma dobbiamo stare attenti a non pensarli come strade “per correre”. Il termine “percorso” deriva da “per-currere”, quindi il percorso è la strada da seguire per fare prima. In genere, durante un percorso non si prevedono deviazioni perché le tappe sono state già prestabilite. Per poter stare bene nel fare scuola all’aperto, mettendo in conto le moltissime e imprevedibili sollecitazioni che possono esserci in giardino o nel territorio, può risultare utile “programmare itinerari” (piuttosto che percorsi nel senso stretto del termine). Il significato di “itinerario” è “viaggio”, “cammino”. Ovvero, l’attenzione va sui passi che facciamo per co-costruire competenze, va sulle soste per approfondire quanto incontriamo strada facendo, va sullo scegliere dove andare una volta che ci troviamo di fonte a un bivio, un trivio...

Fra i tanti itinerari ludici che attraversano la didattica all’aperto, possiamo evidenziarne tre per la scuola primaria:

  • fare fuori ciò che possiamo rinverdire: proposte che facciamo all’interno e possono essere rinnovate a livello metodologico;
  • fare fuori ciò che è fuori: proposte che possono essere fatte solamente all’esterno perché richiedono il contatto con elementi naturali e territoriali;
  • fare fuori... programmazione: proposte che possono venire in mente osservando ed ascoltando i bambini e le bambine che vivono l’ambiente esterno.

Fare didattica ludica all’aperto, proprio perché di-vertente, ci permette di incamminarci lungo itinerari che devono essere ancora indicati sulla mappa che abbiamo messo nella borsa. È vero che i bambini e le bambine all’aperto agiscono come esploratori ed esploratrici, ma anche chi insegna può agire come esploratore ed esploratrice nel fare Outdoor Education.

“Outdoor Education” – scrive Farné – “è un concetto ad ampio spettro, letteralmente significa ‘educazione fuori’, cioè in spazi all’aperto, poiché questo è il presupposto necessario a innescare processi di cambiamento in contesti dove i bambini vivono indoor gran parte della loro giornata scolastica. È una prospettiva che diventa possibile quando gli insegnanti prendono coscienza non solo dei danni che la condizione pressoché totalizzante del tempo in aula può comportare dal punto di vista dell’igiene e della salute dei soggetti che la subiscono (bambini e adulti), ma anche della perdita di opportunità educative che derivano dal non considerare l’ambiente esterno come ambiente di apprendimento: Outdoor Learning”[2]. Dunque, a titolo esemplificativo, soffermiamoci sui nostri tre itinerari ludici per fare didattica all’aperto.

Fare fuori ciò che possiamo rinverdire

Fuori possiamo proporre esperienze che abbiamo solitamente fatto all’interno. Questo non va confuso con l’allestire un’aula a cielo aperto e fare lezioni frontali. Il termine anglofono outdoor education, come afferma Bortolotti riconoscendone l’esplicito riferimento all’attivismo pedagogico, può essere tradotto “Educazione attiva all’aria aperta”[3]. E dato che l’educazione attiva è un approccio che nasce come alternativa alla didattica trasmissiva, ciò che possiamo fare è portare all’aperto quelle attività laboratoriali che già fanno parte della valigetta degli attrezzi dell’insegnante. Esperienze che ai bambini e alle bambine fanno toccare con mano gli apprendimenti. Esperienze che mettono al centro le domande e il piacere di riflettere alla ricerca di risposte (coscienti che non sempre c’è “la” risposta).

Di certo, un’attività proposta all’interno sarà un’altra cosa se vissuta all’esterno. Qualcosa di simile accade anche con un semplice panino che ha un sapore diverso se mangiato all’aperto. Non si tratta di dire qual è più buono e qual è meglio, ma riconoscere come può influire l’ambiente sui sapori e, nel nostro caso, sui saperi.

Per chi è ben disposto a una didattica ludica – quindi attiva – il passo è breve per uscire. Non solo perché ha un ampio repertorio di pratiche, ma soprattutto perché riconosce l’efficacia delle esperienze intrecciate alle riflessioni e come queste possano essere dei trampolini per pensare nuovi itinerari. Il passo è breve per uscire se si ha fiducia in sé stessi e nei bambini e nelle bambine, se si prendono le distanze da quei comportamenti stereotipati relativi al controllo. Così come avviene all’interno, un’attività all’aperto può essere fatta a piccoli gruppi, a maggior ragione perché abbiamo a disposizione uno spazio ampio. Per questo possono essere utili dei punti d’appoggio, come un piccolo cerchio di tronchi[4], ma anche una semplice tavoletta di legno con una molletta per reggere un foglio, se non addirittura un cuscino impermeabile (come possiamo vedere sul sito della Rete delle scuole all’aperto)[5].

Inoltre, durante le attività a piccoli gruppi all’aperto può “far gioco” mettere in conto che i bambini e le bambine possono muoversi, entrare ed uscire autonomamente dal gruppo senza sentirsi inadeguati. Fare scuola all’aperto, quindi, può dimostrarsi un valido approccio inclusivo per andare incontro ai diversi modi di stare al mondo.

Anche i tempi all’aperto hanno un sapore diverso. Giusto per fare un esempio restando sull’importanza del piccolo gruppo, quando alcuni bambini terminano un’attività possono tranquillamente auto-organizzarsi nel fare altro senza “disturbare” i compagni e le compagne che sono ancora immersi nel loro agire e pensare. Insomma, proporre all’aperto esperienze che solitamente abbiamo svolto all’interno è una bella occasione per soffermarsi sugli aspetti metodologici relativi alla “didattica del fare”. A tal punto che queste pratiche possono rinverdire anche quelle modalità consolidate negli spazi interni.

Non solo, a tutto questo si aggiunge la “Vitamina N”[6] come direbbe Richard Louv (che più di dieci anni fa nel libro “L’ultimo bambino nei boschi” ci metteva in guardia dai “disturbi da deficit di natura”). Molte sono ormai le ricerche che dimostrano i benefici di stare all’aperto. Per motivi di sintesi ne riportiamo cinque. Stare all’aperto, ancor di più a contatto con la natura[7]:

  • rilassa;
  • stimola la concentrazione;
  • incrementa relazioni positive;
  • migliora l’umore;
  • rafforza le difese immunitarie.

Questi benefici (e molti altri ancora) valgono per i bambini e le bambine, ma anche per le insegnanti e gli insegnanti che fanno didattica in giardino o nel territorio con un “fare aperto”, cioè consapevoli che si può anche non fare sempre tutto, tutti contemporaneamente. Se l’insegnante è serena/o e soddisfatta/o sarà molto più probabile che i bambini e le bambine siano più sereni/e e soddisfatti/e.

Fare fuori ciò che è fuori

Fuori possiamo proporre ciò che può essere fatto esclusivamente fuori, perché richiede un contatto privilegiato con quanto offre il giardino e il territorio. Il giardino offre moltissimi stimoli anche quando sembra che non ci sia niente.  Per entrare in quest’ottica possiamo guardare un fazzoletto di giardino con gli occhi di Albrecht Dürer che nel 1503 dipinse ad acquarello diverse piante in un pezzettino di prato. La sua opera “La grande zolla”, dove piante e fiori non sono riuniti “artificialmente” dall’artista, ci invita all’osservazione di quanto abbiamo a disposizione, ad accrescere consapevolezza sul nostro rapporto con la natura, a valorizzare ciò che passa inosservato.

Allo stesso tempo, non possiamo negare che maggiore è la biodiversità e maggiori saranno le idee che possono venire nel cortile scolastico. Di certo, tutto ciò che possiamo fare intorno ai temi della natura ha senso farlo a contatto con la natura (anziché in modo astratto se abbiamo a due passi ciò di cui parliamo), già a partire da tutta quella serie di attività che di solito vengono proposte nel mese di ottobre dal nido in poi, ad esempio la caduta delle foglie. Qualsiasi tipo di attività si faccia per continuare a lasciarsi meravigliare da questo fenomeno autunnale, è centrale assecondare il piacere della scoperta. Dialogare con i bambini e le bambine rispetto a quanto osservano, ipotizzano, verificano. Per far questo, la ludicità ci viene incontro, ad esempio divertendosi a fare domande (piuttosto che dare subito risposte) a partire dalla più immediata: perché cadono le foglie? Ciò non significa insegnarlo, ma avere ben chiaro quell’iniziale punto interrogativo che tiene la foglia attaccata a un ramo e che fa brillare gli occhi dei bambini e delle bambine. Se ci divertiamo a farci domande e a ricercare risposte saremo più disponibili a seguire quegli itinerari di loro ricerca anche di fronte a una semplice foglia che ha appena preso il volo. Un approccio che porta a formulare anche domande scomode, come ad esempio: cosa significa colorare le foglie, forse vogliamo far sentire il nostro dominio sulla natura? O forse, alla fin fine, le foglie non ci piacciono così come sono? Perché attacchiamo foglie alla finestra se poi non ci permettono di guardare fuori? Domande impertinenti che invitano a soffermarci su quale messaggio implicito trasmettiamo nei confronti della natura anche quando stiamo cercando di valorizzarla.

È chiaro che fuori non ci sono solamente piante e insetti, terra e cielo, anche se possono essere d’ispirazione a pratiche e riflessioni di carattere, oltre che scientifico, linguistico, geografico, storico, geometrico... sapendo che le discipline nella realtà sono connesse fra loro. E che il fuori permette di collegare la scuola alla realtà e la realtà alla scuola. Se ad esempio abbiamo la fortuna di avere nei paraggi la Via Francigena non resta che studiarla in modo molto approfondito per pensare itinerari ludici pronti a prendere dei bivi interdisciplinari che richiedono un ulteriore approfondimento da parte nostra. Più conosciamo la materia e maggiori saranno le opportunità ludiche che possiamo offrire ai bambini e alle bambine.

Ma se non abbiamo meraviglie di questo genere, possiamo “accontentarci” di altre fonti d’ispirazione. Pensiamo ad esempio quanti itinerari ludici possono diramarsi se andiamo al mercato oppure dal panettiere. Basti solo pensare quanta matematica ci può essere nei calcoli da fare per acquistare un pezzetto di focaccia per tutti, quanti problemi da risolvere emergono nel fare questa esperienza... Spunti di realtà che possono attraversare tutte le competenze. Sta a noi sollecitare e riconoscere le diverse competenze nelle domande dei bambini e delle bambine. Il mondo fuori dalle nostre aule è un vero e proprio “sussidiario” impostato come un libro-gioco, dove si procede scegliendo quale bivio seguire a seconda di quanto accade.

Questo divertirsi a ricercare le osmosi fra ciò che studiamo e la realtà non è una perdita di tempo. L’esperienza di scuola all’aperto, secondo Schenetti, “porta a sperimentare una diversa e più sostenibile idea di tempo dell’apprendimento. Un tempo che non è solo quello cronologico o atmosferico che tuttavia influenza in maniera pregnante la relazione con contesti esterni, ma è il tempo dell’apprendimento, della riflessione e del dubbio, quello più proprio ai bambini”[8].

Troppo spesso i bambini e le bambine, alla resa dei conti, nel nome di una programmazione che deva andare “avanti”, pur andando “bene” a scuola, non collegano ciò che fanno a tavolino con le competenze del quotidiano. Tanto vale rallentare e pensare itinerari che partono dalla vita di tutti i giorni, attraversano approfondimenti trans-disciplinari, per poi ritornare alla realtà, pronta ad essere indagata da nuovi sguardi che brillano di domande.

Fare fuori... programmazione

Fuori possiamo proporre esperienze che nascono dall’accogliere e rilanciare gli interessi dei bambini e delle bambine. Interessi che possono emergere sia durante un’uscita con un obiettivo ben preciso sia durante il gioco libero. Per farlo occorre avere una grande fiducia nell’infanzia, occorre essere disponibili ad ascoltare le idee anche quelle più “impertinenti”. Tanti spunti per nuovi itinerari ludici ci possono essere quando osserviamo ed ascoltiamo i bambini giocare, ad esempio, intorno ad una “semplice” pozza: galleggiamenti, storie d’avventura, sonorità...

Se stiamo all’aperto con un atteggiamento ludico possiamo stare in equilibrio fra ciò che non va proprio come ce lo aspettiamo e ciò che è possibile, rendendoci più disponibili ad accogliere e rilanciare le ragionevoli situazioni inattese. Se ci divertiamo a divergere non aspettiamo altro che l’inaspettato da far diventare una nuova scintilla didattica. Saper attendere l’inatteso può fare la differenza quando facciamo didattica ludica all’aperto. Non è semplice perché richiede un profondo lavoro su noi stessi, sul “senso del controllo” dei bambini e delle bambine, di come interpretiamo il “senso della programmazione”. Morin, nel suo libro Cambiamo strada. Le 15 lezioni del Coronavirus, scrive che se suddividiamo tutto in compartimenti l’inatteso ci prende alla sprovvista, quindi “abbiamo bisogno di un sistema di conoscenza e di pensiero in grado di rispondere alle sfide delle complessità e alle sfide delle incertezze”[9]. Nel nostro essere aperti possiamo essere anche un esempio per i bambini e le bambine.

Per fare “fuori programmazione” ci vuole competenza professionale e coraggio nel fare i conti con inevitabili inciampi. Un primo inciampo potrebbe essere relativo al momento prima di uscire. Se condividiamo l’idea che l’educazione è in ogni momento (uno dei principi fondanti dei Centri d’Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva – CEMEA)[10], tutto ciò che riguarda il vestirsi e lo svestirsi è tempo guadagnato. Mettersi un giubbotto, chiudersi la zip, allacciarsi le scarpe... sono esperienze interessanti da tanti punti di vista: oculo-manuale, logico, auto-regolativo... Talvolta ci sembra tempo perso, ma questo è perché siamo adulti: tendiamo a inseguire un obiettivo prefissato, che è andare fuori. Ma per i bambini e le bambine ogni singolo momento è altrettanto interessante. Il paradosso potrebbe addirittura essere quello di vivere in fretta un momento come questo, per poi proporre, ad esempio, esperienze artificiose dove si richiedono abilità simili all’abbottonarsi, all’allacciarsi le scarpe.

Un secondo inciampo potrebbe esserci nel momento in cui siamo sulla soglia e apriamo la porta... e i bambini e le bambine corrono via! Cosa fare e cosa dire: “Dove andate.... non è ricreazione”? Dobbiamo prenderci cura di questo scappare via, i bambini e le bambine ci stanno  forse dicendo: “Perché non provate a pensare la didattica mettendo sempre al centro il corpo?”. Tra l’altro, le insegnanti che utilizzano abitualmente gli spazi esterni dicono che dopo un po’ i bambini e le bambine quando escono non scappano via, non perché sono stati prima “scolarizzati” poi “giardinizzati”, ma perché è chiaro il messaggio che stiamo facendo scuola attiva considerando globalmente la persona.

Un terzo inciampo potrebbe esserci quando, ad esempio, siamo al clou di una situazione programmata da giorni... e passa una lucertola sul muretto! Una situazione estremamente eccitante per i bambini e le bambine: c’è qualcosa di molto affascinante in quel momento. Osserviamo cosa fanno, ascoltiamo che domande vengono mente, dialoghiamo con le loro teorie. Se non è il momento di soffermarci, non sottovalutiamo il loro senso di meraviglia da riprendere successivamente. Quando facciamo le riunioni di programmazione consideriamo “spazi vuoti che fanno gioco” nel ricercare fuori programmazione che ci permettono d’indagare ed approfondire gli interessi dei bambini e delle bambine collegati alla vita. Quando siamo all’aperto sono così tante le sollecitazioni che è un continuo susseguirsi di novità che talvolta chiamiamo “distrazioni”. Eppure, dal punto di vista dei bambini e delle bambine potrebbero essere “attrazioni”. Non si compete con una lucertola, con un fiorellino, con una foglia che volteggia al vento... Si chiama “biofilia”[11], l’attrazione innata verso ogni forma vivente (piante e animali). E, allora, perché non allearsi con l’ambiente esterno, cogliere l’attimo ludente per ascoltare, accogliere e rilanciare cosa passa per la testa, per il corpo e per le emozioni dei bambini e delle bambine?

A proposito di inciampi, nel libro L’ora di lezione, Recalcati ci riporta l’aneddoto di Moustapha Safouan che dice che un bravo maestro si riconosce da come reagisce all’inciampo (prima di salire in cattedra). Potrebbe ricomporsi subito e far finta di niente. Potrebbe ricomporsi e fulminare con lo sguardo il primo che ride. Potrebbe nascondere goffamente il proprio imbarazzo. “Oppure prenderà spunto da questo imprevisto per mostrare ai suoi alunni che la posizione dell’insegnante non è senza incertezze e vacillamenti, che non è al riparo dall’imprevedibilità della vita?”[12]. I bravi insegnanti sanno fare dell’inciampo il tema di una lezione, divertendosi a vedere l’effetto che fa (e neanche troppo di nascosto).

A carte scoperte

Questo scritto è frutto delle tante domande che nel tempo mi hanno posto le insegnanti e gli insegnanti della scuola primaria durante i corsi che ho tenuto sulle pratiche di didattica ludica all’aperto. Fare didattica ludica all’aperto non significa proporre sempre giochi, tanto meno negare la programmazione, i momenti di studio, i traguardi per lo sviluppo delle competenze, gli obiettivi di apprendimento, la valutazione... Poi ci sono domande rispetto al rischio, alle alleanze con i genitori, al rapporto con le colleghe... ma è un’altra storia.

Ritornando a noi, ascoltandoci reciprocamente nei gruppi di insegnanti è emerso che molte resistenze ad uscire (il freddo, il giardino non adatto, la gestione della classe...) risiedevano anche nel non trovare “vie d’uscita” a modelli paludati nel fare scuola. La didattica ludica all’aperto è stata una bella occasione per prendersi nuove soddisfazioni in linea con le Indicazioni nazionali.

Centrale è procedere – accompagnati con la formazione – a “piccoli” passi, coinvolgendo poche classi alla volta. Fondamentale è condividere esperienze ludiche all’aperto incontrando la storia, l’italiano, la geografia, la matematica, la musica... e riflettere sulle contraddizioni che si generano impostando una didattica a senso unico. Alimentare il “senso ludico” può risultare un modo piacevole per fare didattica all’aperto e per essere pronti a cambiare strada.

Bibliografia

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Sitografia

www.cemea.it

www.scuoleallaperto.com

www.sperimento.it

Antonio Di Pietro è pedagogista ludico, Presidente del CEMEA Toscana e membro del gruppo internazionale di ricerca Jeux et Pratiques Ludiques dei CEMEA. Collabora con la Scuola di Studi Umanistici e della Formazione (Università di Firenze), LUDEA (Libera Università dell’Educazione Attiva) e LUNGI (Libera Università del Gioco). Svolge formazione pratico-riflessiva, affiancamenti nei servizi educativi e nelle scuole, incontri attivi con genitori. Ha diverse pubblicazioni sul gioco e il giocare. Sito: www.antoniodipetro.eu

 

[1]  G. Staccioli, Giocare a imparare. Per una scuola di-vertente, Giunti Scuola, Firenze 2019, p. 17.

[2]  R. Farné, Outdoor Education come orientamento, in Aa. Vv., Outdoor Education: prospettive teoriche e buone pratiche, a cura di R. Farné, A. Bortolotti, M. Terrusi, Carocci, Roma 2018, p. 38.

[3]  A. Bortolotti, Per una Educazione attiva all’aria aperta, in “Infanzia”, n. 4/5, 2015, p. 250.

[4]  Per poter mettere tronchi in un giardino scolastico occorre che siano conformi alle norme di sicurezza, quindi che non ci siano schegge e parti taglienti, che ogni tronco sia interrato (di almeno un terzo della misura totale) in modo che sia stabile, che non siano più alti di 60 cm e che si garantisca un controllo periodico.

[5] Sul sito www.scuoleallaperto.com della rete “Scuole all’aperto” sono raccolte esperienze e riflessioni intorno alla didattica all’aperto. Questa rete di scuole pubbliche all’aperto è nata nel 2016 e riunisce molti istituti Comprensivi del territorio nazionale. L’intenzione è quella di sostenere dirigenti e insegnanti nell’implementare pratiche innovative ed orientare linee guida nella direzione dell’Outdoor Education.

[6]  Cfr R. Louv, Vitamina N. Guia esenzial para una vida rica en naturaleza, Kalandraka, Pontevedra 2019.

[7] Cfr F. Agostini, M. Minelli, Nature-Based Therapy: quando l’outdoor promuove la salute e il benessere individuale, in Aa. Vv., Outdoor Education: prospettive teoriche e buone pratiche, a cura di R. Farné, A. Bortolotti, M. Terrusi, Carocci, Roma 2018.

[8] M. Schenetti, R. D’Ugo, Didattica in natura e educational evaluation: per una progettazione comune, in “Form@re – Open journal per la formazione in rete”, vol. 20, n. 2, 2020, p. 239, url: https://bit.ly/3uof8Kd

[9] E. Morin, Cambiamo strada. Le 15 lezioni del Coronavirus, Raffaello Cortina, Milano 2020, p. 42.

[10]  Uno dei cinque punti che Gisèle de Failly (fondatrice del movimento dei CEMEA) indicò nel 1957 era che “l’educazione si rivolge a tutti ed è di ogni momento”. Per poter leggere gli attuali dieci punti di riferimento dei CEMEA italiani si rimanda a www.cemea.it.

[11] “Il termine “biofilia” letteralmente significa “passione per la vita”, in senso lato “amore per la vita”. Tale termine fu coniato per la prima volta da Erich Fromm, psicoanalista tedesco, per descrivere la tendenza a essere attratti da tutto ciò che è vivo e vitale. Vent’anni dopo, in maniera indipendente, il biologo americano Edward O. Wilson utilizzò il termine “biofilia per indicare un’esperienza empirica di profonda comunione con la Natura” G. Barbiero, R. Berto, Introduzione alla biofilia. La relazione con la Natura tra genetica e psicologia, Carocci, Roma 2016, p. 23.

[12]  M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014, p. 124.