Educare corpi pensanti. Per una pedagogia del corpo in movimento | Educating thinking bodies. For a pedagogy of the body in motion

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Sommario

Il saggio sviluppa in senso pedagogico una riflessione intorno alla danza come luogo di pensiero e modalità esistentiva che, a partire da alcuni aspetti del pensiero filosofico di María Zambrano e Jean-Luc Nancy, per ricongiungersi al pensiero deweyano dell’arte nell’educazione, rivela una dimensione del fare e del sentire del corpo danzante che si estende a tutti gli ambiti dell’agire educativo. La danza cui si fa riferimento è il “muovere” in senso originario, come possibilità-capacità-necessità umana di emozionare, toccare ed essere toccati da tutto ciò che ci circonda. In analogia con il corpo tattile e cinestetico del danzatore, si vuole delineare una nuova figura di educatore che mettendo in atto un pensiero danzante sviluppi, nella relazione educativa, una presenza vitale, sensibile e recettiva, nella consapevolezza di un corpo pensante e vigile, capace di sospensione, movimento e stasi. La dimensione estetico sensoriale è quindi posta al centro dell’agire educativo, e la danza, come fare materico-corporeo, diviene elemento imprescindibile e fondante dell’educazione, insieme a tutti i linguaggi dell’arte.

Abstract

The essay develops a pedagogical reflection on dance as a place of thought and existence. Starting from some aspects of María Zambrano and Jean-Luc Nancy philosophical thought, also connecting to the writing of John Dewey about art in education, the doing and feeling of the dancing body extends to all areas of education. Here, dance is intended as “moving” in its most basic sense, the possibility/capability/necessity to move, to touch and be touched by what surrounds us. The work defines a new figure of educator who, by implementing a dancing thought, develops, in the educational relationship, a vital, sensitive and receptive presence in a thinking and vigilant body that is capable of suspension, movement and stasis. The sensorial aesthetic dimension is therefore placed at the centre of the educational act, and dance, as a material-corporeal act, becomes an essential and foundational element of education together with all the other languages of art.

Premessa

La concezione di una pedagogia come luogo del corpo in movimento, come sapere vivo[1] che si radica nel fare e nell’esistere del corpo, nata dalla riflessione teorico-pratica che ha caratterizzato fin dagli esordi il mio lavoro come danzatrice, educatrice e creatrice di movimento, ha trovato forma nella tesi di Laurea magistrale “Pensare la danza con Marìa Zambrano e Jean-Luc Nancy. Per una pedagogia del corpo in movimento”, recentemente discussa a conclusione del mio percorso di studi in Scienze Pedagogiche e dei servizi educativi presso l’Università di Cagliari.

In questa tesi, ispirata e fondata epistemologicamente su alcuni aspetti del pensiero dei due filosofi qui solo brevemente accennati, si pone l’accento sulla necessità di riprendere e approfondire il tema della corporeità nella riflessione pedagogica. In particolare in questo saggio, l’ispirazione al pensiero melodico della filosofa Marìa Zambrano e al corpo esposto e tattile di Jean-Luc Nancy, conduce alla proposta di un’attitudine metaforicamente “danzante” nella relazione educativa che attinge dalla danza, non solo quale arte dell’espressione e della comunicazione per eccellenza, ma soprattutto quale modalità esistentiva originaria, tattile-cinetica. Danzare si intende quindi come allenamento costante delle capacità sensibili, percettive, intuitive e cognitive, come ginnastica del sentire del corpo che diviene apertura toccante verso l’altro[2].

Essere educatori danzanti

Chi si occupa di educazione e formazione[3], chi ha scelto di dedicarsi alla cura e all’accompagnamento di altre persone, per sostenerle e guidarle nel cammino di vita, siano esse neonati, bambini, giovani, adulti o anziani, non può prescindere da un’accurata, consapevole e profonda cura di se stesso. Aver cura di sé significa essenzialmente conoscersi: l’esortazione delfica e socratica γνῶθι σαυτόν[4], tanto spesso rievocata in ambito educativo, necessiterebbe di una più profonda consapevolezza. Conoscere i propri desideri, le proprie qualità e fragilità, è un dovere etico, una necessità per chiunque debba prendersi ‘cura’ di altre e altri. Ma quali percorsi formativi, quali apprendimenti, quali esperienze bisogna attraversare per un vero percorso di autoconoscenza e maturazione? Se si rimane ancorati a un pensare che si ingarbuglia nel concetto, che pretende di comprendere esclusivamente con l’intelletto, per mezzo di un logos che calcola, misura e definisce, si rimane persi nell’inconsistenza di una mera astrazione discorsiva. Conoscere se stessi non può prescindere dal conoscersi nel corpo, nel suo sentire, nel suo muovere, nel suo comunicare. Non è sufficiente approfondire la consapevolezza psicologica dei propri stati d’animo guardando esclusivamente in interiore homine, perché è nel corpo come unità mobile-senziente e come expeausition per dirla con Nancy, che abita la verità e il senso di ogni persona.

Essere competenti del proprio corpo, conoscerne il ritmo, le singolari e specifiche qualità espressive che caratterizzano il proprio stile comunicativo, dovrebbe costituire la base del percorso formativo per qualsiasi figura educativa che potrebbe essere fruttuosamente ricalcato su quello del danzatore-attore[5], almeno per quanto riguarda i fondamenti del muoversi, del respirare, del camminare.

Le tecniche della danza e del teatro contemporaneo[6] offrono diverse modalità di “allenamento” che possono condurre ad una consapevolezza olistica del corpo, permettendo di acquisire competenze estetico-cinetiche e relazionali, attraverso pratiche ed esercizi ludico-creativi che sviluppano le capacità di ascolto empatico e la consapevolezza dello spazio educativo.

Non si tratta di addestramento, messa in forma di un corpo inteso come massa tendineo-muscolare, bensì di un allenamento lungo e paziente al sentire, che ci rende consapevoli dei nostri impulsi motori, efforts[7], della direzione dello sguardo, della gravità, del centro[8], per acquisire solidità nella stasi e nel movimento.

La conoscenza di queste qualità dinamiche e percettive, predisponendoci al movimento verso gli altri, permette di entrare in relazione con il mondo circostante e familiarizzare con il diverso dell’altro.

Il formatore-insegnante-maestro non deve apprendere la tecnica, ma l’attitudine del danzatore-attore: non tanto le capacità performanti e performative, ma la semplicità dello stare in ascolto ricettivo di tutto ciò che accade intorno a sé. La pratica del movimento danzato inteso in questa forma, insegna ad abitare lo spazio educativo con autenticità, a sentirlo come luogo vitale in cui il corpo nella sua interezza è preparato a reagire con semplicità e prontezza ad ogni possibile circostanza. Il corpo docente[9] diviene corpo mobile, fluttuante, capace di adattarsi ai continui cambiamenti che caratterizzano le relazioni educative.

Essere educatori danzanti significa, quindi, allenarsi a stare nell’ hic et nunc della situazione, presenti in ogni istante, senza sforzo, capaci di attenzione profonda, interesse, curiosità e amore per l’esprimersi molteplice di ogni persona. Sperimentando il movimento, il gioco e le emozioni, si potenzia la capacità empatica con l’ambiente circostante, così da produrre uno sguardo sempre calmo e mai preoccupato nel mutare repentino della situazione nell’ambiente educativo, anche nelle sue manifestazioni apparentemente più disordinate. L’allenamento al muovere del corpo, la capacità di spostare, modulare, accordarsi con il ritmo dell’azione fa sì che il caos possa essere vissuto come momento pieno e generativo, da cui nascono nuove opportunità di stare, insieme, nel tempo della relazione. L’attitudine danzante è quello stato di attenzione vigile, di attesa pronta all’azione propria degli attori/danzatori che attendono, nell’improvvisazione teatrale e coreutica, il momento giusto per entrare in scena e rispondere agli stimoli che provengono dallo spazio scenico e dai compagni di lavoro: significa saper cogliere e interpretare i movimenti vitali delle relazioni, permettendo che il caso, guidato dall’ascolto e dall’attivarsi delle percezioni sensoriali, possa dar vita a nuove soluzioni, nuove coreografie, nello spazio educativo. Con l’esercizio, è sufficiente anche la pratica quotidiana dell’ascolto del proprio respiro accompagnato dalla ripetizione di semplici sequenze di movimento, si fortificano le capacità di resistenza-resilienza e si apprende a saper stare in attesa, per lasciare spazio all’avvento di nuove situazioni, nuove parole, nuovi sguardi[10].

Così come, d’accordo con Yoshi Oida[11], il teatro dovrebbe fare vita, mettere in moto la vita, senza orpelli, senza inutili e barocchi decori, allo stesso modo dovrebbe essere concepita la relazione pedagogica ed educativa. Come per ‘fare teatro’ è sufficiente un tappeto steso a terra per delimitare lo spazio performativo dell’azione, altrettanto semplicemente dovrebbe essere concepito lo spazio educativo-formante. Non è necessario separarsi, mettersi sopra un palco: il teatro e la danza sono fatti da esseri umani per l’umanità[12]. Nel teatro così fatto ci si sbarazza delle vecchie abitudini e così dovrebbe essere per chi si occupa di educazione e formazione. È semplice e forse banale il confronto tra il mettersi su un palco e il mettersi in cattedra, eppure ancora oggi, malgrado alcuni secoli di pedagogia attiva, l’utilizzo della cattedra nelle nostre scuole non è affatto superato.

L’educatore danzante, dunque, è colui che mette in gioco il corpo, che si allena a stare e muoversi in uno spazio educativo aperto, accogliente e inclusivo, che impara prontezza e capacità nella scelta di direzioni e ritmi, ma che sa anche fermarsi, stare in silenzio e fare spazio per il movimento dell’altro. È cosciente delle proprie capacità corporeo-cinestetiche e si esercita nella conoscenza della propria motilità, permettendo al pensiero la libertà di espandersi oltre le cornici consuetudinarie. Si allena a stare nella semplicità e nell’autenticità. Non ha necessità di parature speciali e sa fare a meno di sofisticati strumenti tecnologici per comunicare la propria conoscenza, perché sa vivificare lo spazio della relazione educativa con la sola forza e presenza del proprio corpo[13].

La presenza nell’atto educativo

Per parlare di presenza nell’atto educativo, intendendo ‘atto’ nel senso di esperienza che si fa concretamente nell’agire della relazione educativa, in qualsiasi ambito formativo, è utile soffermarsi un momento sul significato della parola ‘educare’. Se si prende in considerazione l’etimo dal latino ex-ducere, estrarre, condurre fuori, risalta subito il senso di un movimento, il portare-portarsi da un posto ad un altro: un movimento che implica l’azione di qualcuno su qualcosa o qualcuno. Anche l’etimo di pedagogia, da pais-paidòs, fanciullo, e àgō, andare, ha la stessa valenza nel senso dell’andare accompagnando. Ma quali caratteristiche, qualità, conoscenze, competenze dovrebbe avere chi è preposto al compito di condurre, educare, formare, teorizzare pedagogicamente? Certo le competenze teorico-disciplinari offerte dai percorsi universitari preposti alla formazione di tali figure sono fondamentali, così come i laboratori e i tirocini pratici, anche se spesso concepiti come un’ aggiunta, o al più una parentesi, nel percorso di studi, ma quali e come dovrebbero essere acquisite quelle competenze umane che implicano la capacità di entrare in relazione con l’altro, di entropatire l’altro o anche, senza pretese di porsi come guida o esempio, semplicemente di essere in grado di accompagnare nel cammino esistenziale un’altra persona? Come poter acquisire le capacità di facilitatore, motivatore e veicolo di sapere, conoscenza, esperienza? Quali le competenze del pedagogista che gli permettano di pensare, teorizzare e indirizzare le pratiche in ogni ambito dell’educazione e della formazione umana?

Le risposte a queste domande sono oggi più che mai dibattute e oggetto di continue revisioni e sistematizzazioni[14], ma la necessità di implementare le teorie e le pratiche pedagogiche che, fin dai primi decenni del secolo scorso[15], hanno focalizzato la loro attenzione sulla necessità di porre al centro della formazione l’essere umano come sistema unitario in cui la mente è parte consustanziale di un corpo senziente, tattile e cinetico, non sembra porsi tra le priorità della ricerca attuale.

Sembra un argomento ormai superato, non più necessario davanti all’avanzare  delle tecnologie nella didattica e così si assiste alla progressiva messa in disparte dei temi che riguardano la corporeità nella ricerca pedagogica. Credo si possa affermare che qualsivoglia sistematizzazione delle competenze dell’educatore e pedagogista sia insufficiente e aleatoria se non si considerano come imprescindibili quegli aspetti di carattere psico-emotivo-relazionali fondati su un’accurata maturazione della conoscenza di se stessi, a partire dal proprio corpo.

Sviluppare un pensiero corporeo-cinetico è basilare per acquisire capacità riflessive riguardo la condizione umana nella contemporaneità per essere capaci di far nascere nuove ipotesi, nuove visioni, nuovi percorsi formativi.

Possedere consapevolezza cinetico-emotiva, per chi dovrà offrirsi come guida, sostegno e ascolto per altri, dovrebbe essere la priorità, la base epistemologica primaria per qualsiasi curriculum formativo inerente alla pedagogia e all’educazione.

In questi ultimi anni, in cui il sistema scolastico italiano ha attraversato forse uno tra i suoi momenti peggiori, che ha visto, tra le altre criticità, l’acuirsi dell’abbandono scolastico, soprattutto al sud e nelle isole, si è sentito rievocare spesso, con sguardo nostalgico ad un ipotetico passato, il termine “vocazione”, qualità che dovrebbe caratterizzare chi voglia dedicarsi all’educazione e all’istruzione. Tutta la problematicità del discorso educativo sembrerebbe così potersi risolvere selezionando, non si sa bene secondo quali criteri, le figure professionali dotate di questa speciale predisposizione. Personalmente non credo alla vocazione, al talento innato e speciale, nemmeno quando si parla d’arte e di artisti, credo anzi che questa sia una visione molto riduttiva della complessità del processo che porta allo sviluppo e crescita delle professionalità, sia nel campo dell’educazione che in quello artistico, perché il talento e la creatività si sviluppano con lo studio, con la pratica costante, con l’esercizio del pensiero laterale, per dirla con Dallari[16], in ogni momento della vita.

Formarsi, nel corpo e nell’anima, significa innanzitutto lavorare per conoscere la geografia del proprio corpo[17], esercitandosi quotidianamente all’ascolto del proprio ritmo, prendendo coscienza del proprio stare, camminare, guardare. Imparare ad essere presenti a se stessi per poter riuscire a trasmettere a chi si sta educando e curando pedagogicamente, serenità, vicinanza, ascolto e fiducia. Il percorso per acquisire presenza e coscienza del proprio stare corporeo nella scena educativa è molto simile a quello di chi agisce in uno spazio scenico autentico e rigoroso. Naturalmente le modalità possono essere diverse, ma, di base, si tratta di sviluppare, attraverso la pratica, capacità di ascolto e concentrazione tali da consentire uno sguardo aperto, sereno e attento nella relazione educativa.

Presenza significa saper stare nell’hic et nunc della situazione, senza atteggiamenti artificiosi, dando il giusto peso ad ogni momento, ad ogni parola, assaporando ogni gesto e ogni azione, per vivere con consapevolezza ogni scambio comunicativo. Questo non significa dover continuamente agire con interventi, stimoli, esortazioni, bensì saper modulare e ritmare, come nella danza, movimento e stasi, energia dinamica e rilassamento, ascolto e canto. Presenza attiva, ma non indaffarata, riprendendo un’efficace espressione della pedagogista Vanna Iori[18].

Saper attendere, non avere fretta, non preoccuparsi del quanto si fa ma del come si sta nella relazione educativa.

Saper stare nel vuoto dello spazio e del tempo dell’azione, in attesa del l’occasione che faccia rinascere, sempre, un nuovo percorso, un nuovo dialogo.

Il vuoto formante nella scena educativa

Il tema del ‘vuoto’ è presente, come necessità di fare vuoto nell’esistenza per aprirsi al possibile e all’accadere sempre rinnovante dell’esistere, sia in Nancy che in Zambrano.

Per il primo si tratta del vuoto dell’essere che resta abbandonato nell’esistente, non velato o nascosto come per Heidegger[19], ma dispiegato nella sua singolarità plurale. Un abbandono in senso assoluto che è “vuoto” che si apre al pollakôs, all’abbondanza dell’accadere della vita. Vuoto-abbandono-abbondanza[20]. Il vuoto di Nancy, che gioca sempre con le assonanze linguistiche, è dunque sempre creatore in potentia di abbondanza. Non è mai il vuoto disperante e nichilistico di chi non ha più nessun appiglio alla vita, è, invece, un vuoto inaugurante, foriero di molteplici germinazioni:

“Se da un lato qualcosa si chiude, infatti, dall’altro qualcosa sboccia, anche se non ci accorgiamo di nulla e ci sentiamo in preda alla desolazione, anche se ci mancano le parole e il pensiero per questa fioritura [...]: qualcosa sboccia, poiché l’evento della chiusura produce a sua volta storia e poiché ciò che esso porta a compimento, sul suo limite interno, corrisponde anche, sul limite esterno, a una inaugurazione”[21].

Per la filosofa spagnola vi è comprensione solo nello spazio dell’interiorità, dove abita la ragione poetica[22], quella che si apre al sentire del cuore, che è altra rispetto a quella della razionalità calcolante e chiarificatrice. È questo lo spazio del vuoto fertile, in cui si sta mancanti e sospesi, immersi nella fragilità mai statica dell’esistenza. Uno spazio cavo, fecondo di nuove esperienze e di vivencia[23].

Aprire uno spazio vuoto dentro di sé, uno spazio capace di immaginazione e creazione vitale, perché non bloccato, non rigido, non già pieno di idee, convinzioni, concetti, è un lavoro che concerne la mente, certamente, ma non può prescindere dal corpo, dal suo allenamento al sentire. Ecco che qui la danza, come ginnastica del sentire, non mero allenamento muscolare, offre il suo aiuto al corpo-mente per imparare a stare in questo vuoto fecondo, a danzare con esso, ad avere consapevolezza del movimento incessante del tempo della vita, dell’universo e del suo respiro, sentendosene parte, assecondando e organizzando, tenendo insieme e lasciando, facendo e disfacendo.

Il vuoto ci regala la possibilità di accogliere: è la possibilità sempre aperta, sempre rinnovante di fare e dare spazio alla vita, alla comprensione di noi stessi e degli altri.

Perché il vuoto trovi il suo spazio è necessario disfare, sciogliere le cornici restringenti che ci ingessano per lasciar andare ogni cosa risaputa e rivolgerci al nuovo. Disfare significa rinascere a nuova vita. Zambrano cita Dante e il suo “Incipit Vita nova[24], come emblema di nuovo cominciamento, grazie all’amore, alla forza dirompente del desiderio di assoluto e trascendenza che sempre ci accompagna. Ci invita ad avere la capacità di abbandonare schemi rigidi e pensieri già pensati, per fare largo a visioni più ampie, lasciando che il sentire innamorato ci trasporti in volo verso nuove conoscenze.

“È proprio sulla soglia del vuoto che crea la bellezza, l’essere terrestre, corporale ed esistente, si arrende; depone la sua pretesa di essere separatamente e persino quella di essere sé, se stesso; consegna i suoi sensi che fanno tutt’uno con l’anima”[25].

Nel danzare, nell’ ascolto profondo del muovere del corpo, si può ad esempio, sviluppare una percezione di vuoto fecondo nell’alternanza del respiro. Esattamente tra l’espirazione e la successiva inspirazione possiamo allenarci a sentire uno spazio vuoto nel corpo, in cui il movimento si sviluppa libero da ogni tensione, si espande nello spazio, producendo una sensazione di completa immersione nell’ambiente circostante, una sensazione di fluidità che forse solo immersi nell’acqua del mare possiamo sperimentare[26]. Dal corpo, dal suo muovere in questo spazio cavo, aperto, espanso è possibile attivare un pensiero limpido e vigile, capace di donarci nuove capacità intuitive e cognitivo-relazionali.

Per un’estetica dell’educazione

Per estetica dell’educazione si vuole intendere, insieme alla comune accezione di educazione al bello e all’arte in generale, un approccio educativo che, a partire dal significato etimologico, dal gr. aisthētikós, che concerne la sensazione, si prende cura, innanzitutto, dello sviluppo della sfera sensoriale dell’essere umano. Detto altrimenti, si intende un’educazione che non escluda il fare e il sentire del corpo.

L’importanza del proporre, nell’educazione e nella formazione, attività pratiche dove il corpo sia ‘presente’ per agire concretamente, dove, cioè, allo studio teorico si affianchi costantemente il produrre qualcosa, è stata portata all’attenzione del discorso pedagogico e ampiamente divulgata da John Dewey. A partire da Democrazia e educazione[27] il filosofo-pedagogista sviluppa estesamente la sua idea di educazione basata sulla piena compartecipazione di teoria e pratica, includendo il gioco come parte imprescindibile della formazione. Pur vivendo in un’epoca in cui i ragazzi potevano ancora giocare all’aperto e nei cortili, Dewey teorizzava l’importanza di praticare il gioco a scuola come strumento di apprendimento. La sua proposta di un’occupazione attiva[28] nella scuola, si riferisce sia al lavoro quotidiano, come ad esempio il giardinaggio, la cucina, la costruzione di oggetti, ma anche al gioco come attività che impegna in un fare lungo, che diverge, che non è esclusivamente rivolto al fine di produrre qualcosa di concreto, rifinito e utilizzabile in breve tempo. Intendeva il gioco come fare che alleni allo stare insieme, condividendo situazioni problematiche cui poter trovare autonomamente e in modo creativo le risposte, dove sia possibile mettere in gioco competenze logiche e capacità immaginativa. Un giocare che stimoli la curiosità e promuova l’ingegno, sia individuale che collettivo, della classe intesa come gruppo-comunità, in cui sperimentare e acquisire competenze sociali e relazionali.

Dewey era molto critico con tutte le metodologie educative che proponessero strumenti già pronti e percorsi facilitati, perché lo scopo dell’educazione non è esclusivamente quello di raggiungere il più rapidamente possibile un risultato, ma è primariamente quello di mettersi alla prova e trovare da soli o in gruppo, procedendo per prove ed errori, la strada che porta all’acquisizione di competenze e abilità autonome, da spendere per la soluzione di un compito. Interessante in proposito il suo insistere sull’ importanza di utilizzare materiali grezzi nella proposta educativa:

Il timore della materia grezza traspare nel laboratorio, nell’officina, nel giardino d’infanzia froebeliano e nella Casa del bambino di Montessori. Si chiedono materiali che siano già stati sottoposti al lavoro perfezionatore della mente; richiesta avanzata tanto per il materiale delle occupazioni attive, quanto per lo studio accademico sui libri […]. L’idea che un allievo che lavora con un tale materiale assorbirà in un certo qual modo l’intelligenza che è stata impiegata originariamente nel conformarlo tale è fallace. Solo cominciando con materiale grezzo e sottoponendolo a un’intenzionale manipolazione, l’allievo acquisterà l’intelligenza che ha preso corpo nel materiale finito[29].

La riflessione pedagogica deweyana potrebbe apparire lontana dal discorso sulla danza che fin qui si è tentato di delineare, ma proprio su questo punto, riguardante la proposta di un agire materico-corporeo, si innesta l’ipotesi di un’espansione della danza nel fare pedagogico-educativo.

La danza, infatti, attraverso il corpo di cui utilizza appieno energia, sensibilità e sapienza, fa delle mani il fulcro del suo agire. Le mani che danzano sviluppano forza e sensibilità, divenendo strumenti di creazione e comunicazione. Con la danza la manualità, così indispensabile alla vita e all’espressione di una piena umanità, si mantiene, dunque, sempre in allenamento vitale. L’ambiente educativo, lo spazio formante può diventare un luogo in cui tutte le attività si dispiegano in un continuum di esperienze incorporate, in cui il muovere danzante dei corpi risalti come modalità-atteggiamento comunicativo-relazionale di base. Non più quindi considerare le attività separatamente in singoli atelier[30], bensì porre le basi per un ambiente d’apprendimento estetico il cui centro sia sempre il corpo sensibile in movimento, un corpo empatico-danzante che crea, comunica, e apprende.

La competenza del corpo estetico danzante, si innesta e si radica in questa definizione deweyana del lavoro, come pratica del fare-esperire-pensare in ogni ambiente formativo. Con Dewey possiamo considerare la danza, non più solo come pratica ludica e ricreativa, ma come fare educativo concreto, che utilizza il corpo, la sua forza cinetica, sensoriale e cognitiva, per costruire nuova conoscenza.

Ecco le sue parole a conclusione del capitolo su gioco e lavoro:

L’educazione non ha responsabilità più grave che il provvedere adeguatamente al godimento degli svaghi ricreativi, non solo in vista della salute fisica, ma ancor più, se è possibile, in vista degli effetti duraturi che esso ha sulle abitudini mentali. Anche qui l’arte è una risposta a questa domanda[31]

Possiamo quindi riaffermare con Dewey che l’arte dovrebbe entrare nel curriculum educativo, a pieno titolo, non solo in vista della salute fisica e come svago ricreativo, ma come percorso di apprendimento cognitivo tout court.

Nel successivo Arte come esperienza[32], Dewey intenderà l’esperienza in generale solo come esperienza estetica rendendo il suo discorso sull’arte ancora più determinante per l’educazione.

Tra le arti, è la danza a rappresentare una proposta educativa, una metodologia di apprendimento, che più di ogni altra mette in gioco il corpo nella sua interezza, corpo estetico nella fattispecie, corpo che conosce attraverso i sensi, che sta in relazione sensibile con il mondo.

Se con Gregory Bateson intendiamo il corpo estetico[33] come organismo sistemico, il corpo danzante educante o educando è corpo-persona capace di stare in relazione, di mettere in connessione e far danzare tutte le parti in esso interagenti[34]. Un corpo che si forma attraverso un’educazione al movimento che non sia puramente finalizzato ad uno scopo pratico, al mero risultato quantitativo, ma alla conoscenza della sua stessa materia, delle sue possibilità espressivo-comunicative è, sempre seguendo il pensiero batesoniano[35], corpo estetico e etico insieme perché volto al conseguimento di saggezza ed equilibrio.

La danza, insieme alle altre forme d’arte, offre uno spazio che si apre all’affiorare e al prendere consapevolezza dall’ampia gamma di temperature, modulazioni percettive, che sono innate nell’essere umano, e che troppo presto sono messe a tacere in nome del realismo e del definire razionalistico. Ancora Dewey: “L’arte bella, consapevolmente intrapresa come tale, è, per qualità, strumentale in modo specifico. L’arte bella è un dispositivo di sperimentazione impiegato per l’educazione. L’arte esiste per un uso specializzato: un nuovo addestramento delle modalità percettive”[36].

Dare spazio al riaffiorare, con l’esercizio dei sensi, del movimento, delle emozioni, a tutte quelle competenze vitali che non possono e non devono essere considerate sacre, irrazionali e pertanto relegate agli spazi del sovrannaturale, né essere concesse solo al genio dell’artista, questo significa fare educazione estetica, e in questo ambito la danza trova un posto di grande utilità e importanza.

La danza infatti, come linguaggio dell’arte contemporanea che coinvolge il corpo nella sua interezza, è un potente attivatore di quel congegno inferenziale[37] propulsore di crescita e cultura, capace di mettere in moto nella persona dispositivi simbolici e immaginativi che amplificano ed estendono le capacità di interpretazione e comprensione in ogni ambito culturale.

In altre parole, lo studio e la pratica delle possibilità cinetico-espressivo-comunicative del corpo[38], che si basano essenzialmente sull’allenamento al sentire e al saper modulare i propri impulsi motori e psichici, dovrebbero essere la base di ogni percorso educativo e formativo che non separi ciò che costituisce, invece, l’intero e la complessità di ogni corpo pensante.

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Zagatti F., La danza educativa: principi metodologici e itinerari operativi per l’espressione artistica del corpo nella scuola, Mousikè Progetti Educativi, Bologna 2004.

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Enrica Spada, danzatrice e coreografa, laureata presso l’Università Folkwang di Essen in Germania, sotto la direzione di Pina Bausch, è stata allieva del maestro Jean Cébron, ultimo erede diretto della tecnica Laban-Jooss-Leeder, di Hans Züllig e di altre icone del Teatro danza come Malou Airaudo e Dominique Merci. Ha danzato in Italia, Germania, Francia e Taiwan. Laureata con lode in Scienze dell’educazione e della formazione e in Scienze Pedagogiche presso l’Università di Cagliari con due tesi incentrate sul tema del corpo e della danza nell’ educazione e nella riflessione estetico-filosofico-pedagogica contemporanea, ha sviluppato negli anni una metodologia di movimento educativo ludico-creativo-autobiografica, declinata in molteplici e diversificati ambiti formativi e teatrali, rivolta a persone di tutte le età.

[1] L’espressione è di Luigina Mortari in L. Mortari, Un Metodo a-metodico. La pratica della ricerca in María Zambrano, Liguori, Napoli 2003, p. 4.

[2] La riflessione di questo saggio poggia sul pensiero di Jean-Luc Nancy che vede il corpo, nella sua singolarità pluralità  (J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, Giulio Einaudi, Torino 2001), al centro di tutta la sua elaborazione. Oltrepassando il concetto marleaupontyano del corpo inteso come carne, chair, Nancy afferma del corpo la sua natura esposta e relazionale, un corpo teatro che è votato al fuori (Id., Corpo teatro, Cronopio, Napoli 2010). Giocando con l’assonanza dei termini in francese, definisce il corpo come ex-peau sition, pelle che si espone al contatto con tutti gli altri esseri e che toccando comunica (Id., Corpus, Cronopio, Napoli 2014). In questo senso la danza come rühren e berühren, muovere e toccare (Id., hren, Berühren, Aufruhr, in Aa. Vv., Sulla danza, a cura di M. Zanardi, Cronopio, Napoli 2017), esprime il senso ontologico che Nancy attribuisce al corpo come luogo del toccare. Rapportando etimologicamente il peso al pensiero (Id., Il peso di un pensiero, Mimesis, Milano 2009), il corpo che danza è il luogo in cui massimamente si sperimenta la corporeità del pensiero. “Quando cammino, non penso a niente o, piuttosto, i miei pensieri si dissolvono nei miei passi. Di più ancora se danzo. È questa dissoluzione o, per meglio dire, questa dissipazione o distrazione del pensiero – distrazione per attrazione nel corpo –, che è dunque veramente il pensiero: la prova del senso o della verità”, in Elena Ravera, Segreti dell’essere pe(n)sante: danza e filosofia in Dehors la danse e Allitérations. Conversations sur la danse di Mathilde Monnier e Jean-Luc Nancy, in “Elephant Castle, laboratorio dell’immaginario”, n.20, settembre 2019, p.10. url: https://archiviocav.unibg.it/elephant_castle/web/saggi/segreti-dell-essere-pe-n-sante-danza-e-filosofia-in-i-dehors-la-danse-i-e-i-alliterations-conversations-sur-la-danse-i-di-mathilde-monnier-e-jean-luc-nancy/311

[3] Il paragrafo si riferisce in senso lato a tutte le professionalità educative. Con danzante si vuole intendere, in senso evocativo-metaforico, l’attitudine mobile, vigile e serena che alcune semplici pratiche di consapevolezza motoria, ispirate alla danza, possono offrire per migliorare e arricchire la relazione educativa. Non vi è alcuna intenzione di confronto con la figura professionale del danzaeducatore, che la studiosa Franca Zagatti e l’associazione Mousikè hanno delineato per promuovere la danza nella scuola e nell’extra scuola. Su questo importante sviluppo della danza in senso educativo si veda, F. Zagatti, La danza educativa: principi metodologici e itinerari operativi per l’espressione artistica del corpo nella scuola, Mousikè Progetti Educativi, Bologna 2004.

[4] “Conosci te stesso” è l’iscrizione posta sul frontone del santuario di Apollo a Delfi. Socrate, come testimoniato da Platone, ne farà il precetto base della sua filosofia e pedagogia maieutica.

[5] Mi riferisco alla concezione dell’attore così come inteso nel teatro totale occidentale e soprattutto orientale, che non disgiunge la danza dal teatro di parola, in cui il termine danza è abitualmente riferito al movimento e all’espressione dell’attore in generale.

[6] Le tecniche teatrali e coreutiche cui fare riferimento sono molteplici. In particolare chi scrive declina la propria pratica di movimento a partire dalle tecniche di danza della Folkwang Universität di Essen (Laban-Jooss-Leader-Cébron) in cui si è formata, con particolare riferimento alla metodologia del maestro Jean Cébron, con cui ha studiato per tutti i quattro anni del percorso universitario. Per approfondimenti sulla metodologia Cébron si rimanda a Caterina Genta, Trasmissione di conoscenze e formazione artistica al tanzabteilung della Folkwangschule. Da Kurt Jooss a Pina Bausch, Università La sapienza di Roma, a.a. 2004/2005. Url.: https://www.caterinagenta.it/wp-content/uploads/2017/05/TESI_Folkwang_Schule.pdf; Per un approccio alla tecnica Laban, in relazione all’ambito educativo in generale, si invita alla lettura dei testi magistralmente tradotti da alcune tra le più competenti studiose del suo pensiero: R. Laban, L’arte del movimento, a cura di E. Casini Ropa e S. Salvagno, Ephemeria, Macerata 1999; R. Laban, La danza moderna educativa, a cura di L. Delfini e F. Zagatti, Ephemeria, Macerata 2009.

[7] Effort è un concetto chiave della tecnica Laban. Tradotto dall’inglese il suo significato in italiano “sforzo” è riduttivo. In realtà la sua traduzione più appropriata è “impulso” inteso sia in termini di spinta interiore al movimento sia, spesso, come fattore caratteristico e proprio di ciascun movimento. Laban definisce il concetto di impulso nel testo, Effort, scritto insieme all’industriale F.C. Lawrence nel 1947. Per una spiegazione puntuale del termine Effort si veda, La danza moderna educativa, cit., p. 10, nota 1. “Nella terminologia labaniana il termine ‘effort’ indica l’impulso interiore che dà origine al movimento, l’intenzione di chi si muove o danza nei confronti dei fattori di movimento, ossia del peso, del tempo, dello spazio, del flusso”.

[8] Per una definizione di centro chiara e immediata si rimanda a Y. Oida e L. Marshall, L’attore invisibile, Bulzoni, Roma 2000, p. 25. “Quando i giapponesi parlano di hara, si riferiscono a quella parte del corpo che si trova a pochi centimetri sotto l’ombelico. Questo è il centro di gravità del corpo umano”.

[9] L’espressione è di Maria D’Ambrosio. Cfr., M. D’Ambrosio, Cinetica e cognizione. Teatro come spazio dove l’educazione ‘prende corpo’, in Aa. Vv., Teatro come metodologia trasformativa. La scena educativa fatta ad arte. Tra ricerca e formazione, a cura di M. D’Ambrosio, Cartografie Pedagogiche, Liguori, Napoli 2016.

[10] Anche solo dedicare dieci minuti per sé, prima di cominciare qualsiasi attività, praticando con l’ascolto della respirazione, un breve viaggio corporeo-interiore, ripercorrendo, anche da seduti, ogni parte del nostro corpo, sentendo e muovendo con minime rotazioni le giunture articolari, come una piccola danza, quasi invisibile, può essere sufficiente e restituire serenità, regalandoci uno sguardo aperto e accogliente verso chi ci attende.

[11] Yoshi Oida, attore interprete di molte tra le opere teatrali di Peter Brook, è autore di testi significativi sulla formazione dell’attore che compendiano la tradizione teatrale giapponese e quella occidentale acquisita attraverso la lunga collaborazione artistica con il grande regista.

[12] Y. Oida, L’attore fluttuante, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 94-95.

[13] La tremenda epidemia che ci costringe, fin dalla scorsa primavera, al distanziamento sociale e all’utilizzo sempre più massiccio di strumenti tecnologici per la comunicazione virtuale, anche nella scena educativa e scolastica, sta facendo emergere, in maniera eclatante, i gravi disagi psico-emotivi e sociali causati da uno stile di vita in cui sia negata la fisicità nella relazione umana. Questi segnali dovrebbero essere colti per una più ampia e approfondita riflessione sull’importanza della presenza e del contatto nell’educazione.

[14] A riguardo, tra le più recenti pubblicazioni, si rimanda a S. Deiana (a cura di), Pedagogiste e pedagogisti tra formazione e lavoro. Narrazioni e letture della scena pedagogica universitaria e professionale, PensaMultimedia, Lecce 2019.

[15] La corporeità è stata al centro delle riflessioni della pedagogia fenomenologica-esistenziale che poggia sul pensiero husserliano, sulle successive elaborazioni esistenzialiste heideggeriane e in particolare sulla fenomenologia della percezione di M. Marleau-Ponty. Per l’estensione e trasposizione della fenomenologia nella teorizzazione pedagogica italiana, si rimanda alle opere fondamentali di Piero Bertolini e Vanna Iori: P. Bertolini, L’esistere pedagogico, ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, La Nuova Italia, Firenze 1988; V. Iori, Essere per l’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1988. Per quanto riguarda la riflessione filosofica sulla danza moderna e contemporanea nel suo rapporto con il pensiero fenomenologico marleaupontyano si rimanda a C. Di Rienzo, Per una filosofia della danza. Danza, corpo, chair, Mimesis, 2017.

[16] M. Dallari, In una notte di luna vuota, Erickson, Torino 2008, p. 78; si veda anche: E. De Bono, Creatività e pensiero laterale:manuale di pratica della fantasia, Rizzoli, Milano 2002.

[17] Y. Oida, L’attore invisibile, cit., p. 29.

[18] V. Iori, Essere per l’educazione. Fondamenti di un’epistemologia pedagogica, cit., p. 151.

[19] M. Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1983.

[20] Cfr., S. Piromalli, Vuoto e inaugurazione, la condizione umana nel pensiero di María Zambrano e Jean-Luc Nancy, Il Poligrafo, Padova 2009.

[21] J.-L. Nancy, L’esperienza della libertà, Giulio Einaudi, Torino 2000, p. 8. Sul tema del vuoto in Nancy e Zambrano cfr., R. Fadda, La condizione umana tra vuoto, esistenza e cura, in Rassegna di Pedagogia LXIX, 3-4, Pisa-Roma 2011, pp. 359-362.

[22] Cfr., L. Boella, Cuori pensanti. Hanna Arendt, Simone Weil, Edith Stein, Maria Zambrano, Tre Lune, Mantova 1998, pp.77-79.

[23] In spagnolo l’Erlebnis husserliano da cui, per analogia, il termine ‘vivenza’ oggi utilizzato dagli studiosi invece del tradizionale ‘vissuto’ che ne mortifica il senso di attività-esperienza viva.

[24] M. Zambrano, Chiari del bosco, SE, Milano 2016, p.16.

[25] Ivi, p. 52.

[26] Laban ricorda, in diversi punti della sua riflessione, come sia fondamentale essere capaci di sperimentare e agire il flusso di movimento, il quarto fattore di movimento dopo spazio, tempo, peso. Se ne parla diffusamente in tutta la sua opera. Per definirlo utilizza spesso la metafora dell’acqua, paragonando il flusso di movimento ad una nuotata rinfrescante, da cui traggono beneficio sia il corpo che la mente. “Come l’acqua anche il flusso di movimento è un mezzo universale di sostentamento vitale […] Il flusso di movimento partecipa a tutte le nostre funzioni e azioni, ci libera dalle tensioni interiori dannose, è un mezzo di comunicazione tra le persone[...]tutte le nostre forme di espressione come parlare, scrivere e cantare sono sostenute dal flusso di movimento”, in R. Laban, La danza moderna educativa, cit. p. 64.

[27] J. Dewey, Democrazia e educazione, la Nuova Italia, Scandicci-Firenze 1992.

[28] Ivi, pp. 247-259.

[29] Ivi, p. 251. È significativo notare come Dewey sottolineasse apertamente le rigidità di alcuni metodi educativi, tra i più innovativi del tempo, la cui impostazione eccessivamente strutturata e conseguentemente limitante per lo sviluppo della creatività e del pensiero incarnato, meriterebbe ancora oggi una valutazione più attenta.

[30] Il concetto di atelier è stato introdotto nella scuola da Loris Malaguzzi, ideatore e fondatore delle prime scuole e nidi d’infanzia pubblici in Italia. Psicologo e insegnante ha rivoluzionato l’educazione scolastica per i bambini della fascia 0-6 dando vita ad un sistema pedagogico educativo adottato in molti paesi del mondo. Per approfondimenti cfr. L. Malaguzzi (a cura di), Esperienze per una nuova scuola dell’infanzia: Atti del seminario di studio tenuto a Reggio Emilia il 18-19-20 marzo 1971, Editori riuniti, Roma 1971, url: https://www.reggiochildren.it/reggio-emilia-approach/loris-malaguzzi. Un’interessante esperienza che sviluppa il concetto di atelier nella scuola, coniugando apprendimento motorio e cognitivo, è il progetto CorpoGiochi ideato da Monica Francia, direttrice artistica di Cantieri danza di Ravenna, qui il laboratorio/atelir non è più momento un concluso e a se stante, ma un evento collocato al centro di un percorso didattico annuale pluridisciplinare. Francia M. (a cura di), Almanacchi di corpo giochi, Anticorpi, Ravenna 2018. url: http://www.cantieridanza.it/corpogiochi/files/2019/01/ALMANACCO-2018_CorpoGiochi_Cantieri_Danza.pdf.

[31] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 258.

[32] J. Dewey, Arte come esperienza, Aesthetica, Palermo 2012.

[33] G. Bateson, Mente e natura, Adelphi, Milano 1984, p. 22. “Per estetico intendo sensibile alla struttura, che collega”.

[34] “L’ecologia della mente è questa nuova forma di definizione in cui ogni organismo produce se stesso in un riconoscimento auto-riflessivo; tale riconoscimento si intreccia con il contesto di vita dell’organismo in una continua spirale costruttiva, una “danza di parti interagenti”, in G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, Milano, 1997, p. 89.

[35] Nel saggio Stile, grazia e informazione nell’arte primitiva, in ivi, p.185, Bateson ci porta a considerare che solo conseguendo la “saggezza globale” che è data dal superamento di una visione puramente finalistica della vita e che non può essere raggiunta senza l’aiuto di quei fenomeni come l’ arte, la poesia, il sogno, di tutto ciò insomma, che sta su quella superficie di separazione tra conscio e inconscio, luogo della percezione dell’unitarietà e inscindibilità del corpo umano, si possa pervenire alla piena consapevolezza della natura sistemica della mente, del corpo, del mondo e dell’universo tutto. “La pura razionalità finalizzata, senza l’aiuto di fenomeni come l’arte, la religione, il sogno e simili, è di necessità patogena e distruttrice di vita […] e la sua virulenza scaturisce specificamente dalla circostanza che la vita dipende da circuiti di contingenze interconnessi, mentre la coscienza può vedere solo quei brevi archi di tali circuiti sui quali il finalismo umano può intervenire”.

[36] J. Dewey, Esperienza, natura e arte, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 45.

[37] M. Dallari, In una notte di luna vuota, Erickson, Trento 2008, pp. 135-144. Partendo dal concetto di inferenza come concetto logico-cognitivo che consente di organizzare in forme sequenziali le parti di una proposizione o di un calcolo per poter giungere alla conclusione o soluzione di un procedimento, Dallari allarga il significato in senso narratologico, come capacità di collegare fra loro le singole parti di un testo. Distinguendo poi tra modelli semplici (lineari) e complessi (circolari) di inferenza, estende, per analogia, il significato dalla comprensione del testo alla comprensione della realtà e dei diversi sistemi culturali in generale. Differenzia quindi l’inferenza interna a un dato sistema o medium culturale dall’inferenza esterna che consente collegamenti tra diversi media culturali. Per analogia considero la danza come attivatrice di sistemi inferenziali in quanto sviluppa capacità estetiche in senso lato.

[38] A questo proposito possono essere, ancora oggi, di grande ispirazione e guida le indicazioni di Laban che ha dedicato proprio agli insegnanti un’ampia parte del suo discorso, invitandoli a seguire il suo percorso di studio attraverso la pratica dei 4 fattori di movimento (Spazio-tempo-Peso-Flusso) e delle 16 azioni o qualità motorie fondamentali, per conseguire nuove prospettive nell’osservazione/comprensione degli allievi e maggiore padronanza e consapevolezza della propria presenza nella relazione educativa. “L’insegnante può iniziare applicando le sue conoscenze ai propri movimenti, analizzando i propri effort il più precisamente e imparzialmente possibile[...]dopo un’auto-osservazione approfondita, potrebbe sorprendersi nello scoprire che il suo equilibrio di effort è disturbato, per esempio combatte continuamente il Tempo con movimenti frettolosi e veloci; indugia sempre nello Spazio, attraverso tortuosi effort mentali e corporei.”, in R. Laban, La danza moderna educativa, cit., p. 67.

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