Fare educazione: come Mario Lodi ha ispirato un gruppo di studenti di un Istituto professionale

Durante il precedente anno scolastico assieme al gruppo dei peer educator della mia scuola ci siamo ispirati al lavoro di un grande pedagogista italiano, Mario Lodi: partendo dai primissimi giorni di settembre con l’accoglienza delle classi prime e gettando quel seme che sarebbe fiorito durante tutto l’anno scolastico, l’idea è stata quella di fare educazione. Un verbo e un sostantivo meravigliosi: “fare”, perché oggi i ragazzi hanno bisogno di sperimentare col proprio corpo e con la propria testa quello che intendiamo loro proporre, ed “educazione”, un ritorno al senso prioritario e primario dello stare a scuola, che non si limita alla trasmissione di un sapere, seppur prezioso, ma coinvolge tutti gli aspetti della vita quotidiana dell’essere una cittadina o un cittadino inseriti in una comunità scolastica, territoriale, nazionale, europea e mondiale.
“[...] la scuola non deve soltanto istruire, ma anche e soprattutto educare, formando cioè il cittadino capace di inserirsi nella società col diritto di esporre le proprie idee e col dovere di ascoltare le opinioni degli altri [...]”: ecco che Lodi (p. 45) nei primi appunti che poi raccoglierà in C’è speranza se questo accade al Vho ci fornisce subito un chiaro scopo di quello che andremo a fare, un obiettivo grande, che coi ragazzi decidiamo che possiamo (e vogliamo) declinare in piccole azioni quotidiane.
La mia scuola è un Istituto professionale con numerosi indirizzi (tra cui anche Liceo artistico) e dunque con vocazioni e anime diverse tra loro. Come tante scuole di questo tipo, abbiamo il privilegio (e la conseguente sfida) di incontrare studenti che hanno alle spalle storie e famiglie complesse, di ordine economico e sociale. Molti di loro hanno una disabilità, un disturbo specifico dell'apprendimento o non sono ancora completamente a loro agio con la lingua italiana. A volte ascoltiamo narrazioni davvero dolorose e di fronte a questo dolore noi adulti, docenti, dobbiamo prima di tutto restare, starci di fronte, non solo pensare al prossimo passo, alla strategia da adottare per uscirne, ma avere il coraggio di fermarsi e accogliere. Spesso credo la vera sfida di un Istituto professionale sia quella di guardare i ragazzi, di sostare davanti a loro senza affrettare il giudizio, senza pensare che siamo gli adulti e dobbiamo loro fornire una risposta concreta e risolutiva: dire loro che li vediamo, che ci siamo, che forse nemmeno noi sappiamo cosa fare, ma che resteremo lì. Sicuramente per un insegnante non è semplice accettare di restare sul margine, lavorare lì, ma ritengo che questo sia il compito reale della scuola attuale, soprattutto di alcune scuole.
Con i peer educator, studenti più grandi appositamente formati, siamo partiti subito i primi giorni di scuola per lasciare a studentesse e studenti un piccolo segno dell'anno che li avrebbe attesi, un piccolo seme che sarebbe poi cresciuto nel tempo. Abbiamo allora dedicato cura e attenzione alla qualità della relazione che si crea fin da subito: i peer educator hanno nutrito l'atmosfera che si respira in una classe prima, tra la voglia di presentarsi, di conoscere gli altri e di incontrare ciò che ci circonda.
Le prime attività hanno tratto ispirazione dall'incontro, avvenuto nei precedenti anni, tra studenti peer e classi prime e dal racconto di un primo giorno di scuola di Mario Lodi. Nel noto libro "Il paese sbagliato" il maestro ci descrive come un elemento naturale o un artefatto culturale possano essere specchio della nostra interiorità, permettendoci di mostrarla anche agli altri. Abbiamo così provato a trovare ispirazione fuori di noi per fare luce su quanto anima il nuovo inizio, dentro di noi. Indagare fin da subito emozioni e aspettative è infatti importante perché l'affettività è elemento cardine della nostra struttura scolastica. Nei momenti di riflessione condivisa, che ci ritagliamo durante tutto l’anno scolastico coi peer educator trovandoci in cerchio in un’aula per monitorare l’andamento delle attività, ci siamo resi conto infatti di quanto il bisogno di riconoscimento, indagato da Rousseau a Bion, muova corpi e parole dei ragazzi in prima: ho bisogno dell’altro per comprendere meglio me stesso, mi serve vedere come mi rifletto in lui per scoprire chi sono e chi sarò in questo nuovo spazio.
Il primo giorno è stato così dedicato alla presentazione della scuola (gli spazi, gli strumenti utili, l’identità dell’Istituto, i progetti extracurricolari) e dei ragazzi tra loro attraverso giochi, per esempio giocando sullo scambio di nomi: gli studenti sono stati invitati a girare per l’aula e a scambiarsi i nomi, ogni volta che salutavano, incontrando un compagno, dovevano cambiare nome, prendendo il suo e lasciando a lei/lui il proprio. Se ritrovavano il proprio nome, potevano sedersi, così fino alla fine del giro, facendo attenzione a ritagliare un momento finale in cui tutti si ripresentavano “ufficialmente”.
I peer educator hanno sempre diverse opzioni di attività tra cui scegliere, a seconda della loro attitudine e di quanto percepiscono in classe, ad esempio alcuni giochi sono più dinamici e facilitano la partecipazione nelle classi con più voglia di muoversi. Si toccano punti semplici per iniziare a scoprire i propri compagni di classe, si può stimolare l’identificazione usando il mese di nascita: tutti camminano dicendo il loro mese di nascita, quando hanno trovato i loro compagni di mese si prendono per mano. Quando tutti hanno ritrovato le persone del proprio mese si mettono in ordine crescente, da gennaio a dicembre, formando un cerchio. Un altro gioco di condivisione è raccontare, magari a coppie per facilitare l’apertura di tutte e tutti, una cosa vera e una falsa su di sé o una/due cose vere e false su quello che ci piace: l'altro proverà a indovinare cosa è vero e cosa è falso di me.
Oltre a queste attività, sempre nei primi due giorni, scopriamo assieme e condividiamo alcune regole utili, sperando possano essere efficaci durante tutto l'anno. Un altro momento importante è infatti la stesura del patto d’aula: scriviamo assieme comportamenti attesi da se stessi e dagli altri durante gli incontri coi peer educator, ma adatti anche per essere estesi ad ogni mattinata dell'anno. Solitamente vengono fuori nodi cruciali della convivenza che fanno parte anche delle basi del regolamento di Istituto ma che, in questo caso, sono chiamati in causa direttamente dai ragazzi: rispetto reciproco, non giudicare gli altri compagni, non usare il cellulare durante le attività. “Rumorosi commenti sottolineano i patti sottoscritti: si tratta di tenere ordinata la nostra aula ma chi entrasse in quel momento avrebbe certamente l'impressione di un mercato. E pure questa è una fase che non si può eludere o scavalcare, mi dico, se mi pongo come fine, in prospettiva, una comunità organizzata ed efficiente” scrive Lodi nel capitolo intitolato con grande significato “Un giorno come un seme” (Lodi, 2022, p. 24).
Il secondo giorno di scuola visitiamo i plessi della scuola, scoprendo i diversi ambienti e le loro funzioni, e proviamo a stimolare l’utilizzo di parole e immagini per raccontare i sentimenti che animano questo inizio. Approfittando dell'uscita, le classi prime, in momenti diversi secondo orari stabiliti, si fermano negli spazi verdi esterni, in zone predisposte con fogli, matite e libri di vario genere (albi illustrati, poesie, classici, libri fotografici e di arte, cataloghi di mostre, romanzi, testi più tecnici di auto e moto), ma anche con materiale personalizzato per alcuni studenti al fine di agevolare la loro partecipazione (per esempio abbiamo predisposto un tablet con immagini tra cui scegliere oppure foto stampate a colori). I peer educator invitano a sfogliare i libri prendendosi il tempo necessario per scegliere una parola o una poesia o un’immagine da ricalcare che rappresenti il sentimento del nuovo inizio in questa scuola. Come ci racconta Lodi, utilizziamo l’oggetto culturale per agevolare il racconto della nostra interiorità: narrazione infatti non semplice da tirare fuori nei primi giorni. Andando avanti durante l'anno scolastico, le ragazze e i ragazzi delle classi prime hanno modo di incontrare i loro compagni peer educator nei corridoi, nei momenti meno strutturati, ma anche in incontri organizzati, specifici su alcune tematiche: lo stare in gruppo, le dipendenze, l’affettività e la sessualità, gli stereotipi di genere. Il primo di questi, dedicato al fare gruppo, è per noi fondamentale per attivare le successive riflessioni, per creare un ambiente in cui ci si senta liberi di esprimersi e non giudicati (aspetto a cui sappiamo che i ragazzi tengono molto e che infatti i peer educator riportano spesso).
Tutte le studentesse e gli studenti delle nostre dodici classi prime, in preparazione di questo momento, vengono invitati a portare a scuola un oggetto che rappresenti una parte della loro storia: oggetti di uso quotidiano, che portano sempre con sé o che si trovano rinchiusi in un cassetto o in una vecchia scatola. Oggetti che raccontano, che ci fanno parlare di un’emozione, di un incontro indimenticabile, di quando siamo stati felici, di quando pensavamo di non farcela ma poi ce l'abbiamo fatta, di quando abbiamo avuto paura, pezzi preziosi della nostra infanzia. Questi oggetti ci restituiranno il privilegio di metterci in comunicazione diretta con la vita vissuta dall’altro. Il giorno dell'incontro sulla tematica dello stare in gruppo i peer chiedono a turno, disposti in cerchio, di raccontare quale oggetto ciascuno ha portato con sé ciascuno e perché esso è importante. Cosa dice di me agli altri? Se ci sono domande da parte dei compagni, si lasciano fare liberamente: “Ora una realtà oggettiva prende tutti e risuona dentro in modi differenti. [...] Affiorano alla memoria esperienze e ricordi, la conversazione si fa tumultuosa e ricca di spunti.” (Lodi, 2022, p. 20)
Mano a mano si pongono gli oggetti al centro dell’aula in terra, poi, alla fine delle presentazioni, ognuno a turno dice quale tra quegli oggetti che ha davanti potrebbe essere rappresentativo anche per lui. Evidenziamo così che ci sono somiglianze tra noi, anche nascoste, che non emergono subito. Tutti abbiamo una storia che ha punti in comune con la storia dell’altro.
Questa comunanza con l’altro emerge anche negli altri incontri tra la classe e i peer educator, incontri in cui chiediamo sempre ai docenti di uscire dall’aula per lasciare che l’attività sia realmente tra pari. Nell’approccio a temi di forte interesse per i ragazzi, come l’affettività, la sessualità e le dipendenze, emergono storie comuni, domande e incertezze condivise, attitudini simili che si declinano diversamente, ma su cui facciamo leva per rafforzare quell’idea di gruppo di ricerca che si muove assieme come del resto suggerisce Lodi (Lorenzoni, 2023).
Ci auguriamo che questi piccoli semi di reciprocità possano trovare così il loro spazio e i loro tempi per crescere in una comunità educante capace di ascoltare, di dare dignità ad ogni voce, senza mai perdere il senso di quello che sta facendo.
Riferimenti bibliografici
Lodi M., Il paese sbagliato: diario di un’esperienza didattica, Einaudi, Torino 2022.
Salviati C.I., Mario Lodi maestro: con pagine scelte da C'è speranza se questo accade al Vho, Giunti, Milano 2015.
Lorenzoni F., Educare controvento: storie maestre e maestri ribelli, Sellerio, Palermo 2023.
L’autrice
Anna Lazzerini è docente per le attività di sostegno in un Istituto professionale di provincia, “Sismondi-Pacinotti” di Pescia (PT), in cui lavora, trasversalmente alla didattica, all’interno della commissione di educazione alla salute e in quella di contrasto e prevenzione al bullismo e al cyberbullismo.

