I laboratori: una necessità per il rinnovamento della formazione, non una rivoluzione | Workshops: a necessity for the renewal of education, not a revolution

DOI: 10.5281/zenodo.8156202 | PDF | Educazione Aperta 13/2023

Vorrei che si pensasse ai laboratori da me realizzati anzitutto come un luogo di vita piacevole, favorevole a incontri, conversazioni, scambi di idee, nuove amicizie. Un luogo familiare, in cui ci si fermava dalle 14.30 alle 19.00. Cambia la condizione di studente, non ascoltatori di lezioni ma ricercatori in gruppo. Un esempio. In uno dei gruppi c’erano due ragazze non vedenti. Nel regime delle lezioni sarebbero state anonime e isolate. Nel gruppo potevano esprimersi al pari degli altri, discutere, collaborare, avere momenti di divertimento. La situazione era non meno nuova e utile per i compagni che avevano molto da apprendere dalla diversità.

Il sistema dei laboratori non è un congegno compiuto, immutabile, è una complessa realtà in formazione, ha una vita sperimentale aperta a continui mutamenti. Nel luogo fisico attrezzato con materiali e strumenti, con una guida qualificata s’impostavano progetti e si svolgevano attività con ricerche che variavano secondo l’area culturale.

Una situazione materialmente semplice, con pochi mezzi può essere un laboratorio se gli allievi lavorano su progetti. Un procedimento produttivo dipende da noi, un vero sistema di laboratori richiede un impegno istituzionale. Se si realizzano modi nuovi di apprendere e nuovi rapporti tra docente e allievi, e di allievi tra di loro, si dà valore positivo anche a soluzioni parziali a causa, tra l’altro, di difficoltà obiettive.

Non ho aspettato il 1972 quando, con delibera del Consiglio di amministrazione dell’Università di Torino, fu autorizzata la creazione dei laboratori. Una decisione impegnativa. In un grande appartamento in via Maria Vittoria 10, dopo qualche mese di lavoro, così si presentava la struttura (estensione extramoenia dell’istituto di pedagogia): una biblioteca, sale polivalenti per riunioni di gruppi e per attività artistiche, un laboratorio misto (ferro, legno, materiali plastici), un forno ceramico professionale, un tecnigrafo per progetti grafici, un gabinetto per la fotografia, una cinepresa, una fotocopiatrice, un elementare computer (siamo in anni precedenti gli sviluppi dell’informatica). L’uso di una varietà di materiali per dipingere, plasmare, per costruire prodotti tecnologici era incentrato sui rapporti tra mezzi, progetti, procedimenti, funzioni. La sequenza si applicava anche alla costruzione di spiegazioni e di concetti. Nell’apprendimento produttivo l’intuizione, l’inconscio, il caso avevano un ruolo non meno essenziale della riflessione e dell’intenzionalità. Davo molta importanza alla scrittura per organizzare, sviluppare e verificare idee, e comunicarle con stile personale.

 

Riguardo all’apprendimento produttivo, molto prima del 1972, nel 1946, inizio l’esperienza dei laboratori a Firenze in forma molta modesta. Nell’immediato dopoguerra tornai a Firenze, città dei miei studi universitari, e ebbi l’incarico di assistente volontario. Senza aspettare condizioni favorevoli, attivai gruppi di ricerca in una situazione molto scomoda su banchi inclinati. Stimolavo, davo consigli e aiuti ma protagonisti erano gli studenti. All’università solo parole e libri, noi invece usavamo cartoni, colla, spago, cumuli di riviste e di giornali per trarne materiale di una ricerca di documentazione. Ho sempre rispettato questi principi di valore scientifico e morale (si veda il mio libro Il sistema dei laboratori, Milano, Feltrinelli 1978).

- Gli allievi hanno il diritto di fare ricerche al pari di me. Sarebbe stata una grave incoerenza una netta distinzione tra me ricercatore e gli allievi ascoltatori di lezioni.

- Anche la struttura a laboratori più avanzata per spazi, metodi, strumenti non ha autosufficienza. La ricerca usciva dai laboratori per entrare in rapporto con realtà e competenze che definiscono funzioni produttive e professionali. La ricerca sul campo apre a quelli che definivo “problemi a dimensione reale”, un’ossessione da cui per fortuna sono ancora dominato.

- Apprestamento di strumenti (schemi di osservazione e di interviste, di mezzi di documentazione e di verifica…) per trarre profitto dagli incontri con realtà esterne.

- La ricerca era mescolata a ordinarie esigenze di vita: conversare, provare piacere nello stare insieme, ampliare amicizie, parlare d’altro. Io docente apprendevo insieme ai miei allievi.

- Nei laboratori lo sviluppo delle capacità creative, del gusto della scoperta, dei rapporti e della collaborazione era naturale. Si lavorava a progettare e a elaborare, si usciva dai laboratori per appropriarsi di conoscenze con l’osservazione sul campo.

- Per attività che non trovavano competenze interne, ricorrevo a esperti esterni. Nei laboratori sono passati giuristi, storici dell’arte, artisti, fisici, fotografi e documentaristi professionali. L'esperienza di collaborazione era nuova anche per gli esperti.

 

La struttura a laboratori è la realizzazione dell’antipedagogia? L’antipedagogia non ha niente di sovversivo, è semplicemente la definizione degli obiettivi, dei mezzi, dei valori di una formazione coerente con le capacità e le esigenze naturali degli uomini. La pedagogia, tolta dall’isolamento, combatte l’artificio che divide esigenze di vita e lavoro culturale.

Nel ‘67 creo il termine antipedagogia per ribadire il legame stretto della funzione educativa con il rinnovamento culturale sociale politico. Pensavo a un sistema formativo all’interno di vasti mutamenti capaci di incidere sulle strutture, di mettere al centro la visione non generica o utopistica di un nuovo tipo di società (inclusa la sua identità economica).

L’antipedagogia è debitrice di grandi idee. Il sistema di laboratori ne è una realizzazione piccola e parziale. Non ho mai enfatizzato il ruolo dei laboratori e dell’antipedagogia. All’ampiezza di idee corrispondeva, nelle condizioni date, una pratica con effetti molto limitati. Nei laboratori non avvertivamo la fatica di lunghe ore di lavoro. Circolavano benevolenza e amicizia, gentilezza e gioia, e interessi politici sociali culturali ci radicavano nel presente e ci prefiguravano un futuro migliore.

I partecipanti mi erano accanto come protagonisti, non di fronte come ascoltatori. Anche di fronte per comunicare e non come punti di ascolto. Non maestri e allievi con ruoli prefissati, ma persone esposte alle incertezze della vita. Differenze di livelli in esperienze e di cultura non ostacolano la collaborazione. È una fortuna incontrare chi ne sa più di noi: ci fa progredire.

 

Quando ho lasciato l’università per dimissioni, il lavoro di pedagogista non ha subito arresti, anzi ha avuto nuovi sviluppi con collaborazioni impegnative. Non solo occasionali corsi di aggiornamento in laboratori ma consulenze per progetti innovativi. Ho continuato ad andare a Modena dove curavo l’aggiornamento delle insegnanti della scuola dell’infanzia per l’educazione artistica. Molto più ampia la consulenza per Lavorare per progetti che, avviato dal Comune di Riccione, si estese ai Comuni di Rimini, di Misano Adriatico e di alcuni piccoli comuni della Romagna meridionale. Dall’esperienza di Modena è nato il mio libro Il colore dei pensieri e dei sentimenti (Firenze, La Nuova Italia 1990) e dall’esperienza avviata da Riccione due miei libri, Lavorare per progetti (Firenze La Nuova Italia, 1989, 2001) e La scuola nel nuovo sistema formativo (Azzano San Paolo, Junior, 1998). Forse uno dei miei contributi più importanti riguarda la documentazione. Negli anni di consulenza a Lavorare per progetti ho ideato una Banca Dati informatica per documentare le ricerche, con una caratteristica unica: permette a chi la consulta di avere tutte le informazioni per la valutazione obiettiva delle ricerche documentate.

Se oggi avessi l’opportunità di dare vita a un sistema di laboratori, mi atterrei al modello di Via Maria Vittoria? No, assolutamente. Senza negare quell’esperienza dovrei continuare, con discontinuità, il rinnovamento che accompagnò il formarsi nel tempo del “vecchio” sistema. Tutto è cambiato, la politica, la società, i comportamenti, i consumi, gli strumenti di uso corrente e professionale, le tecnologie di produzione e di informazione. Un sistema di laboratori deve essere diverso non solo per strumenti e procedimenti ma anche come luogo fisico.

 

La grande novità è l’informatica, ma per usare strumenti nuovi occorre una cultura nuova fatta di conoscenze e di abilità che spostino i punti di vista e influiscano sulle attività. Non basta stendere la mano e staccare, come una mela, la cultura nuova. Ho avuto modo di conoscere esperienze nel campo del pensiero computazionale (sarebbe più corretto dire uso computazionale del pensiero), informatica senza pc già per la scuola dell’infanzia. Si tratta di imparare a programmare seguendo vari stadi. È possibile non seguire un rigido procedimento lineare e fare intervenire la varietà dei poteri mentali, ma occorre una accurata preparazione con la collaborazione di esperti.

Non è possibile fare a meno dell’informatica, ma se ne snaturerebbe l’uso se si riducesse la mente a un computer: si mortificherebbe tutta la disponibilità dei poteri mentali, la loro creatività, la funzione dell’intuizione e dell’inconscio che si presentano in tempi imprevisti durante la ricerca.

È naturale non avere in mente fin dall’inizio il percorso di ricerca nelle varie fasi, si tratti di arte, di narrativa, di critica, di scienze. La creatività è attiva lungo tutto il corso del lavoro, con continue revisioni che incidono sull’essenziale. Idee non solo da sviluppare ma anche da rovesciate per utilizzare improvvise intuizioni e raggiungere un strato più profondo e un nuovo punto di vista o un prodotto più complesso. Tra le letture indispensabili sui poteri produttivi, io consiglio tre opere di alta divulgazione del matematico e fisico Henri Poincaré: La science et l’hypothèse, 1902; La valeur de la science, 1905; Science et méthode, 1909.

Anche solo per dare sviluppo agli audio visivi non basta conoscere programmi digitali di ripresa e di montaggio; occorre avere idee, essere creativi, costruire storyboard con un originale stile comunicativo. Sono problemi che affronto con persone che continuano a consultarmi per fare cose nuove. Il carattere produttivo e creativo dell’apprendimento, il rapporto con le realtà esterne, la conoscenza del mondo degli studenti nei mutamenti sociali e culturali vanno affrontati con nuovi strumenti ma continuano a essere la salda base del rinnovamento. Gli attuali sviluppi verso le classi digitali (lavagne interattive multimediali touch screen, netbook, tablet) e le classi robotiche per passare dall’informatica d’uso a abilità di programmazione, vanno sostenuti da forze critiche e creative capaci di fare presa sui problemi reali, dargli un quadro teorico incui possano trovare adeguate spiegazioni.

                                 15 maggio 2019

Nel 2019 Francesco De Bartolomeis preparò questo intervento per un gruppo di ricercatori che cominciava a lavorare sulla didattica partecipata in università. Il testo fu letto a Cagliari, in apertura di una sessione di gruppo alla Prima conferenza di “Scuola democratica”. Ci fa piacere mettere anche a disposizione di altri questa memoria lucida e progettuale – e questa dimostrazione di un modo di stare con gli altri nel lavoro di ricerca (t.t.,v.s.).