La scuola del mondo e la scuola-che-non-c’è | The School in the World and the Never-School

Francis Donkin Bedford, Peter Pan playing the Pipes [detail]. Illustration from "Peter and Wendy" by James Matthew Barrie, Published 1911 by C. Scribner's Sons, New York. Public Domain. Source: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Peter_pan_1911_pipes.jpg.

 

La presa della parola […] consiste nel dire: “Io non sono una cosa” (De Certeau, 1968).

Ciò che resta a conclusione della lettura delle Nuove indicazioni 2025. Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione. Materiali per il dibattito pubblico (Nin) è una, non piacevole, sensazione di aver attraversato un testo di finzione, non scritto particolarmente bene, che racconta una scuola-che-non-c’è.

Che non c’è più, forse, perché il tipo di scuola delineato assomiglia molto a quello dei primi anni Sessanta del secolo scorso – ignorando o rimuovendo colpevolmente dalla memoria che, nel frattempo, la ricerca pedagogica e le pratiche didattiche hanno conosciuto: solo per limitarci al panorama italiano, la grande stagione della scuola democratica teorizzata e praticata da insegnanti del MCE; il lavoro nelle scuole dell’infanzia di Loris Malaguzzi e l’incontro con Gianni Rodari che diede vita alla Grammatica della fantasia; l’enorme lavoro di Tullio De Mauro e le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica etc.

O, forse, che non c’è ma sarebbe auspicata da chi pensa, come ebbe a dichiarare Adolfo Scotto Di Luzio (uno dei componenti della commissione che ha redatto le Nin) durante la presentazione a Padova del suo (pessimo) libro su don Milani, che a partire dalla primaria la scuola deve servire “a imparare a leggere, scrivere, far di conto e star fermi nei banchi”.

Nella premessa generale si afferma (p. 9) che:

L’allievo […] non sceglie di desiderare di imparare, sceglie il modello che sa stimolarlo in tale direzione. E il “modello” è l’esempio di un maestro, esempio fondamentale affinché il desiderio dell’allievo non resti allo stato di pura tensione psicologica ma si orienti verso degli oggetti definiti che sono le esperienze e i contenuti del curricolo.

Dunque si assegna all’insegnante una valenza di centralità educativa che non corrisponde da anni alla realtà verificabile quotidianamente nella “scuola del mondo”. I “modelli” (che siano positivi o negativi è una questione successiva alla necessaria constatazione di partenza) per bambin* e ragazz* sono ben altri e di altro tipo e abitano nei gruppi di pari, nei social, nei videogames, nei manga, negli anime e così via.

E, comunque, questo ideale insegnante modello e mentore e stella polare per la crescita dei ragazzi e delle ragazze deve anche sapere che lo deve essere senza particolari riconoscimenti professionali ed economici, perché

Il personale sa condividere le risorse, scambia pratiche di lavoro per il miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia dell’istituto. Vi si sperimenta l’innovazione facendo leva sul coinvolgimento attivo e partecipato dei membri più anziani che diventano con serena naturalezza tutor e facilitatori dell’apprendimento professionale degli insegnanti neo-assunti (p. 11).

Così come, in corso di lettura, spesso pare che le Nin siano state scritte a pagine alterne senza che le mani destre abbiano mai conosciuto ciò che nel frattempo elaboravano le mani sinistre.

A pagina 8, per esempio, si dichiara: “La persona è una realtà che si costituisce attraverso la possibilità di dire ‘io’”. Mentre a pagina 10 si dice: “Una mente libera è una mente che sa dialogare, che sa accogliere le diversità senza paura, che sa pensare criticamente senza cadere nel dogmatismo, o nell’individualismo esasperato”.

Così, con tanti saluti al principio di non contraddizione, si esalta la costruzione dell’io e, come si ripeterà più volte nel testo, della “valorizzazione dei talenti”, assomigliando, più o meno consapevolmente, la scuola italiana del ventunesimo secolo a un gigantesco talent-show dove registri elettronici, cattedre, collegi docenti e commissioni di esame sostituiscono i giudici dei mille format televisivi basati sulla competizione, spesso sleale e manipolata.

Disciplinare le discipline

Nella scuola-che-non-c’è, in questa scuola che sembra avere come primo interesse il coordinamento e controllo dei processi organizzativi e didattici, in questa scuola che pare esser preoccupata della disciplina più che delle discipline, è possibile scrivere nel 2025 – nell’epoca in cui bambin* e ragazz* crescono in un universo multimediale che mette insieme immagini, suoni, stimoli sensoriali, percettivi e di apprendimento affatto diversi – che: “la letteratura – e solo la letteratura – è sia un modo per conoscersi […] sia un modo per imparare a stare al mondo con consapevolezza” (p. 36).

Quindi siamo ancora, secondo gli estensori delle Nin, nella concezione gerarchica dei saperi secondo la quale la parola scritta è primo e predominante mezzo di apprendimento e di conoscenza. Anche con una torsione autoritaria non indifferente, quando si scrive: “Il patrimonio orale già posseduto dagli apprendenti può essere valorizzato come punto di partenza, anche se in certi casi andrà poi corretto e modificato” (p. 37). (La prima delle Dieci tesi già ricordate affermava la centralità del linguaggio verbale).

Concezione che viene ribadita più volte, arrivando a prescrivere che l’insegnante potrà utilizzare testi di vario tipo, trattandosi non soltanto di libri ma anche (e in quel “ma anche” c’è tutta la scala gerarchica, cioè: ci sono in cima i libri e poi c’è il resto del mondo) di “fumetti, silent-book, graphic-novel, canzoni, brani di sceneggiatura, e in generale qualsiasi testo possa accendere negli studenti l’interesse e l’amore per la parola scritta” (p. 37).

Se ancora non l’avessimo capito, viene ulteriormente ribadito che devono essere privilegiati testi integralmente letterari, che possono essere “forme elementari di poesia come gli slogan, le filastrocche, gli scioglilingua, gli haiku” ma anche “‘poesia da grandi’, purché comprensibile a studenti molto giovani” (p. 40). Ed ecco sciorinare come esempi Saba, Valeri, Gozzano, Govoni, Pascoli, Penna, Lamarque.

Ancora una volta, invece di valorizzare quei testi della canzone italiana che sarebbe difficile considerare “poesie elementari”, si preferisce rimanere nel sicuro alveo dell’accademia. Quando invece dovrebbe essere ormai pacifico considerare che non solo esistono testi di canzoni scritti da Italo Calvino, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini o Roberto Roversi, ma pare davvero difficile argomentare che versi di De André, Guccini, Maria Monti, Paolo Conte, Margot, Jannacci, Giovanna Marini fino a Vasco Brondi, Cristina Donà, Caparezza o Carmen Consoli, solo per fare alcuni esempi, non siano da inscrivere a pieno titolo alla poesia. Fra i moltissimi libri che possono confermare la piena legittimità poetica della canzone ne ricordo qui solo uno di recentissima pubblicazione (Pantalei, 2025) non dimenticando, per uscire dai nostri confini, che nel 2016 il Nobel per la letteratura è stato assegnato a Bob Dylan.

Nella scuola del mondo le religioni sono tante

Nella scuola-che-non-c’è si prescrive la lettura della Bibbia. E fin qui niente di male, anzi. Se non fosse per alcune questioni di dettaglio che andrebbero approfondite. Innanzitutto: dire “Bibbia” è come dire “musica” o “arte”. Un oceano sconfinato, generico e indistinto. La Bibbia, lo sappiamo, è raccolta di molti libri, scritti in epoche diverse da diversi autori. Quindi, quale di questi libri o che estratti di questi libri scegliamo di leggere?

Poi, qual è il grado di preparazione degli e delle insegnanti – compresi coloro che hanno l’incarico dell’insegnamento della religione cattolica – per una lettura seria, approfondita, rigorosa di testi tratti dalla Bibbia? Non sempre adeguato, purtroppo, se non addirittura scarso o inesistente[1].

Infine – ma non come ultima questione – la composizione della popolazione scolastica in Italia è ormai tale da comprendere numerosissim* bambin* e ragazz* di altre origini, nazionalità, lingue e fedi. In nome di cosa possiamo prevedere di leggere la Bibbia e di non considerare minimamente, ad esempio, il Corano o i testi sacri del Buddismo, dell’Induismo, del Confucianesimo? In nome di cosa e in che modo dovremmo spiegare a bambin* e ragazz* che provengono da famiglie che aderiscono ad altre fedi che i loro testi di riferimento non sono minimamente presi in considerazione dalla scuola italiana[2]?

La scuola del mondo non abbandona i bambini perduti

La scuola-che-non-c’è – e che speriamo non ci sia mai più – è una scuola nella quale le persone rischiano di esser ridotte a cose, reificate: prima attraverso l’operazione simbolica, che ricorda il sorvegliare e punire, del voto; poi con una selezione di fatto che, smascherando la grande bolla colorata del cosiddetto “merito”, farà proseguire negli studi chi già aveva le condizioni di partenza per farlo e relegherà in percorsi scolastici e lavorativi meno socialmente riconosciuti e sicuramente meno retribuiti molti altri e molte altre.

(“Dopo le medie c’è la scuola per i ‘marocchini’ – mi disse qualche tempo fa un’educatrice – che possono, se va bene, andar a fare le parrucchiere o i riders, e c’è la scuola per i ‘bianchi’, che poi andranno all’università”).

La scuola-che-non-c’è è una scuola che ha poca o inesistente attinenza con il mondo concreto, con la vita vera dei bambini e delle bambine e delle ragazze e dei ragazzi. È una scuola che rischia di essere alienante.

Reificazione. Alienazione. Categorie interpretative che lungi dall’essere desuete e superate vanno tenute in conto per non incorrere in abbagliati errori di interpretazione dei processi sociali ai quali stiamo assistendo in questi anni.

La scuola del mondo, invece, è una scuola in cui tutti i soggetti inseriti nel processo educativo – insegnanti, genitori, studenti e studentesse – concorrono al dialogo costruttivo e creativo per generare nuovi percorsi e nuovi significati.

È una scuola in cui, prima di tutto, si privilegiano le condizioni per una “presa di parola” che non è bulimica espressione di opinioni improvvisate ed emotive, ma la soglia di accesso alla manifestazione esplicita dei propri diritti e alla disponibilità di considerare i propri doveri come uno dei passaggi essenziali per la creazione di legami sociali non effimeri e non apparenti.

La scuola del mondo, la scuola nel mondo, è una scuola che non abbandona i bambini perduti, consapevole che ogni abbandono è una ferita per il singolo e per la società tutta.

Al contrario, diciamolo, le Nin sono il frutto di un disegno schiettamente reazionario. Immaginano una scuola-che-non-c’è che vorrebbe essere l’unico modo ottimo – selettivo, autoritario, reificante, alienante – di far scuola, per riportarci indietro nella riflessione teorica e nella pratica quotidiana.

D’altra parte, parafrasando ma solo un poco appena il poeta, il cammino che porta alla scuola-che-non-c’è è, com’è noto, “seconda stella, a destra”.

Prendere la parole non è osare dire quello che si pensa, ma osare pensare ciò che non si sa già (Garcés, 2024).

Note

[1] Si vedano a questo proposito i preziosi contributi di Francesca Cadeddu, Franco Ferrarotti e Marco Ventura in Salvarani, 2022.

[2] Per fare un solo esempio di comportamenti virtuosi, per fortuna già presenti nella scuola italiana, ormai sono frequenti episodi come il festeggiamento comune della conclusione del periodo del Ramadan.

Riferimenti bibliografici

De Certeau, M., La presa della parola e altri scritti politici, Meltemi, Roma 2007.

Garcés, M., Occupare la speranza, Castelvecchi, Roma 2024.

Pantalei, G.C., Una lingua per cantare: gli scrittori italiani e la musica leggera, Einaudi, Torino 2025.

Salvarani, B. (a cura di), L’analfabetismo biblico e religioso. Una questione sociale, EDB, Bologna, 2022.

Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell'Educazione Linguistica, Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, https://giscel.it/dieci-tesi-per-leducazione-linguistica-democratica/.

L'autore

Carlo Ridolfi è giornalista pubblicista, iscritto all’Ordine del Veneto, dal 1981. Si occupa del mondo dell’educazione, con particolare attenzione ai racconti per immagini in movimento e suoni, alla pedagogia democratica, alla didattica attiva e ai processi di cooperazione generativa tra scuola, famiglia, territorio e istituzioni. Ha collaborato con il maestro Mario Lodi dal 1994 al 2014 e ha progettato e realizzato convegni e attività di formazione in Italia e in Spagna. Ha pubblicato quattro libri, ne ha curati tre, scrive su quotidiani, riviste e siti.