Quattro ragioni per leggere "Una scuola per l'emancipazione" di Philippe Meirieu ai tempi della pandemia | Four reasons to read “A school for emancipation” of Philippe Meirieu in the times of the pandemic

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Ho iniziato a leggere Una scuola per l’emancipazione. Libera dalle nostalgie dei vecchi metodi e da suggestioni alla moda (Armando, 2019, p. 279) all’inizio del mese di marzo 2020 e mano a mano che le conseguenze sulla scuola della diffusione globale del coronavirus si rivelavano nella loro gravità mi è sembrata sempre di più una lettura opportuna. Rilevante per le persone impegnate a vario titolo nel mondo dell’educazione, dai genitori fino ai responsabili politici. In particolare per le insegnanti e gli insegnanti, che si sono trovati molto velocemente attanagliati tra l’urgenza di trovare risposte appropriate per continuare a garantire la scuola a tutti, la necessità di mantenere una comunicazione significativa con studenti privati di molte occasioni di socialità e l’inadeguatezza di un discorso pubblico, confusionario nel migliore dei casi ma spesso proprio recriminatorio.

La mia lettura del bel testo di Philippe Meirieu perciò è stata molto indirizzata dalle inquietudini del presente – forse in altri momenti avrebbe toccato corde diverse – soprattutto per quattro ragioni:

1. Innanzitutto perché prende una posizione molto netta rispetto alla crisi che vive la scuola. Gli elementi di questa crisi vengono chiariti in modo puntuale nella densa introduzione, scritta insieme a Enrico Bottero, che tratteggia un’arena in cui si scontrano le due posizioni dell’autoritarismo tradizionalista e del progressismo amministrativo. La prima prospettiva è improntata all’esaltazione dell’autorità dell’insegnante, della lezione frontale e della distribuzione di premi e punizioni. È una visione che conosciamo bene e per la quale ci sentivamo vaccinati, prima che riesplodesse in tempi recenti nelle nostalgie della “scuola di una volta” di coloro che attribuiscono la rovina attuale ai protagonisti del Sessantotto. La seconda si avvantaggia di una maggiore novità, che contribuisce a gettare del fumo persino negli occhi dei più avveduti. Con il suo modello manageriale e tecnocratico, intriso dei dettami della valutazione per competenze, delle procedure standardizzate, della competizione tra scuole e Stati, delle classifiche nazionali e internazionali, della necessità della scuola di adattarsi al mercato del lavoro e all’economia mondiale, si presenta come la quintessenza dell’innovazione. Tra i due approcci, solo apparentemente contrapposti, ci sono in realtà notevoli punti di contatto: per esempio la selezione elitaria sostenuta dal primo ben si sposa con l’elogio del privato proprio del secondo nel promuovere lo smantellamento dell’istruzione pubblica. Inoltre entrambi sono contrassegnati da un tono molto autoritario, di cui ascoltiamo l’eco proprio in questi giorni. Il discorso pubblico dominante, infatti, attribuisce le odierne difficoltà della scuola all’impreparazione dei docenti nell’uso delle tecnologie didattiche, salvo poi da un lato riaffermare la loro subordinazione nell’impianto aziendalistico assunto dalla scuola e dall’altro dedicare scarsa o nulla attenzione alla considerazione del coinvolgimento e della partecipazione effettivi da parte degli studenti. Nel corso del libro la contrapposizione tra autoritarismo tradizionalista e progressismo amministrativo viene in parte ripresa in parte affiancata ad altri binarismi, come quello tra l’antipedagogismo e l’iperpedagogismo, in termini però che a mio avviso – e a detta dello stesso autore – sono più vaghi e potenzialmente fuorvianti. Dietro il concetto di “iperpedagogismo”, infatti, sembra esserci piuttosto la rinuncia a ogni intervento pedagogico mosso da un’autentica intenzionalità educativa. La contrapposizione tra antipedagogismo e iperpedagogismo, inoltre, ripropone molti aspetti della classica querelle tra spontaneismo e intervento esterno, perdendo la messa a fuoco sulle specificità dell’attualità.

2. Un secondo pregio del libro di Meirieu è che riafferma con forza il valore sociale della scuola, delle professioni educative e della pedagogia. Quest’ultima si mette in gioco nell’arena poco sopra descritta con la sua dimensione assiologica, epistemica e pratica, ovvero con i suoi principi, idee-regolative e orizzonti di senso; le sue conoscenze in relazione sia agli interlocutori educativi che ai contenuti da comunicare; le sue proposte istituzionali, metodologiche e tecniche. L’autore lamenta l’assenza della pedagogia dai media o viceversa il predominio di un chiacchiericcio spedagogico, in genere monopolizzato dalle più svariate figure professionali, a eccezione degli educatori. Come dargli torto, in un momento in cui da più parti viene evidenziato un totale vuoto di riflessione rispetto ai bisogni dell’infanzia, ma anche di altri soggetti al centro del variegato universo educativo, nei provvedimenti varati per far fronte all’emergenza coronavirus? La pedagogia cara a Meirieu è fortemente ancorata al pensiero e all’esperienza delle educatrici e degli educatori che ne hanno fatto la storia, trovandosi sovente “in mezzo alla bufera”[1]. Educatori e educatrici cioè costretti spesso a muoversi controcorrente e a condividere la sorte di emarginazione propria dei gruppi di cui avevano deciso di prendere le parti; proprio come i protagonisti del movimento delle scuole nuove, che costituisce uno dei riferimenti fondamentali del libro e di cui peraltro l’autore non omette di menzionare il pluralismo e le contraddizioni interne. Da questo quadro deriva un ritratto molto convincente e appassionante della pedagogia, che rende questo libro particolarmente adatto alla formazione iniziale degli insegnanti: “La pedagogia è così: semplice – a rischio di apparire dogmatica – nelle sue finalità, complessa – a rischio di apparire un linguaggio per iniziati – nelle sue modalità. È chiara nei suoi obiettivi, che ripete continuamente fino a infastidire i suoi interlocutori, ma è sofisticata nei suoi metodi, che rivede costantemente al punto da scoraggiare spesso gli uomini e le donne che si impegnano sul campo. È allo stesso tempo idealista e impegnata nel quotidiano. Ama ripetere i suoi principi sempre con un po’ di enfasi, prima di perdersi in infinite spiegazioni e sfumature, correggendo, riprendendo e precisando continuamente i suoi propositi per essere sempre vicina alle esigenze della vita quotidiana”[2].

3. “Una scuola per l’emancipazione” è un libro che parla all’oggi, anche perché riconosce la relazione educativa come lo spazio sorgivo di ogni autentica pratica pedagogica. Nello sguardo di Meirieu, ogni insegnante è anzitutto uno sperimentatore “capace di inventare situazioni di apprendimento originali, di esercitare capacità di giudizio e di prendere ogni giorno decisioni, senza mai avere la certezza di raggiungere i suoi scopi ma con l’ostinazione tranquilla di chi sa che l’educabilità di tutti è l’unica scommessa possibile per chi vuole continuare a esercitare questo mestiere. La pedagogia è un’azione umana, dunque fragile. È quello che fa la sua forza”[3].

In questo modo, di fronte alle roboanti pretese di chi ritiene che il complesso mondo che si muove nella compresenza sia trasferibile tout court nella didattica a distanza, le parole di Meireu inducono a un silenzio riflessivo: “In una classe, il minimo gesto ha valore educativo: dice qualcosa di ciò che lì si sta costruendo”[4]. L’autore dedica uno spazio approfondito ai processi di apprendimento che fanno leva sul potenziale educativo delle relazioni tra pari e che sono molto efficaci se si avvalgono di un atteggiamento non intrusivo ma neppure noncurante, improntato a una vicinanza sensibile, da parte dell’insegnante. “Bisogna dire chiaramente che la pedagogia non può fare a meno di perseguire l’apprendimento della cooperazione. […] A mio parere, qui siamo di fronte a una sfida essenziale. La nostra scuola si priva troppo spesso di uno strumento fondamentale per sostenere la crescita intellettuale di due allievi e aiutarli a scoprire quanto la collaborazione li possa arricchire e quanto sia preziosa la solidarietà. L’aiuto reciproco va sia a vantaggio di chi aiuta che di chi è aiutato; si può praticare tra allievi della stessa classe o tra allievi di età e livelli molto diversi; può essere mirato e specifico o assumere la forma di un monitorato con tempi lunghi; può realizzarsi in una relazione a due o collocarsi all’interno di una “rete di scambi reciproci di conoscenze”[5].

Tra le pratiche su cui si sofferma l’autore c’è quella del dibattito, rispetto al quale enuclea alcuni principi essenziali:

Bisogna definire l’oggetto di cui si parla, precisare la questione che è oggetto della discussione. Non si discute a freddo: bisogna prepararsi, non per cercare il modo di chiudere la bocca all’avversario, ma per esaminare il problema sotto tutti gli aspetti, documentarsi, non sfuggire alle obiezioni ma prenderle sul serio, farle proprie, renderle parte del proprio ragionamento. […] La regola minima ed essenziale è non togliere la parola all’altro. Riformulare il punto di vista dell’oppositore per verificare che sia proprio il suo prima di presentare le obiezioni: è l’indispensabile saggezza del “se ho ben compreso”. Fermarsi regolarmente per ripetere e annotare ciò che è condiviso e individuare gli aspetti di disaccordo: tutto questo permette di non girare a vuoto. Sforzarsi di distinguere l’esempio – che illustra un caso – dalla prova – che spiega il meccanismo: è l’esigenza del rigore. Alla fine del dibattito permettere a ogni partecipante di esprimere chiaramente ciò che ha imparato, ciò su cui ha cambiato parere, ciò che lo separa ancora dal suo oppositore o dai suoi interlocutori: è la condizione per cui non si cerca soddisfazione nell’esaltazione dello spettacolo[6].

Queste e altre esperienze si situano nel quadro di una proposta di più ampio respiro, orientata alla decelerazione della scuola. Una proposta cioè che valorizzi il silenzio, allunghi i tempi dedicati alla riflessione personale, offra occasioni di ricerca, formi i diversi tipi di attenzione e in particolare l’attenzione profonda, stimoli l’esigenza del rigore.

4. Infine la scuola sta attraversando un momento carico di difficoltà ma anche di sfide che rappresentano delle opportunità. A patto che non vinca subito l’irreggimentazione messa in opera dai padroni del cambiamento che non cambia nulla, sarà possibile porre qualche questione di senso della direzione di una maggiore giustizia sociale. Ecco perché le riflessioni del libro di Meirieu sono preziose: ci ricordano che l’attuale organizzazione istituzionale della scuola non è un’essenza immutabile; ci aiutano a immaginare delle alternative, che riescano a coniugare finalità comuni, il più possibile auspicabili, con percorsi differenziati capaci di valorizzare le risorse di ciascuno. Se c’è una critica che si può muovere al libro, invece, è l’esclusivismo educativo che in certi passaggi sembra essere assegnato alla scuola. Se è vero che la strategia “dell’esternalizzazione” delle responsabilità educative, specialmente nei confronti delle persone più vulnerabili, appare assolutamente ambigua, bisogna riconoscere che queste responsabilità coinvolgono ormai un numero crescente di attori e spazi. In questo senso, la creazione di nuove forme di riconoscimento, reciprocità e alleanza tra la scuola e i molteplici contesti dell’educazione non formale è un altro punto essenziale all’ordine del giorno.

 

Mariateresa Muraca ha conseguito nel 2015 il dottorato di ricerca in Scienze dell’Educazione e della Formazione Continua presso l’Università di Verona, in cotutela con l’Universidade Federal de Santa Catarina (Brasile). È formatrice per la Scuola di Pace di Monte Sole in progetti di cooperazione internazionale in Mozambico, incentrati sull’educazione alla pace. È docente a contratto di Pedagogia generale all’Università di Verona, docente stabile di Pedagogia generale e sociale e Storia dell’educazione all’Istituto Universitario Pratesi (affiliato all’Università Pontificia Salesiana) e docente invitata di Pedagogia sociale e progettazione educativa d’équipe e Metodologia e strumenti degli interventi educativi extrascolastici all’Istituto Universitario Progetto Uomo (aggregato all’Università Pontificia Salesiana). È autrice del libro Educazione e movimenti sociali (Mimesis, 2019); del manuale didattico I colori della pedagogia (Giunti TPV e Treccani, 2020) e di diversi articoli scientifici. È attiva in spazi di ricerca e impegno come la Comunità filosofica femminile Diotima, la Rete nazionale Freire e Boal, la rete internazionale MOVER – Educação intercultural e movimentos sociais, il CESDEF – Centro Studi Differenza Sessuale Educazione Formazione, l’ABRE – Associazione di Brasilianisti in Europa. È codirettrice scientifica di “Educazione Aperta”.

 

[1] Philippe Meirieu, Una scuola per l’emancipazione, Armando, Roma 2019, p. 18.

[2] Ivi, p. 16.

[3] Ivi, p. 262.

[4] Ivi, p. 132.

[5] Ivi, p. 258.

[6] Ivi, p. 200-201.