Relazione e letteratura: una esplorazione | Relationship and literature: an exploration

DOI: 10.5281/zenodo.10646187 | PDF

Educazione Aperta 15/2024

The encounter with certain literary characters is also (and perhaps primarily) an encounter with masks, revelations, emotional and sentimental foundations, and different ways of reorganizing unexpected events. To some extent, the level of fiction functions as an experiential accelerator: the book, with its stories, condenses events into a limited space-time (the pages) that would sometimes take months or even years to unfold. The individual who invests their time delving into literary scenarios, on one hand, accepts being "accompanied" for a more or less brief period of life by figures and situations they may never encounter outside the same work. On the other hand, at the end of this “journey”, through a necessary self-exegesis, they may have the opportunity to recognize new stimuli, individual differences, and unprecedented inspirations. This is the moment when literature, transitioning from the written page, becomes incorporated into one’s interiority, leading to a kind of personal recognition.

Keywords: Narration, Self-Exegesis, Educational Relationship, Inactuality

 

Introduzione

In questo articolo si prenderanno in esame due figure letterarie, L’idiota, (il principe Myskin) di Fëdor M. Dostoevskij e Tonio Kröger di Thomas Mann, come contributi per approfondire determinate zone della realtà educativa.

Con le parole di Roberto Albarea, che in diversi saggi si è occupato delle relazioni tra costruzione del sé e letteratura, “un’opera letteraria, un autore, un pensatore o un artista producono forza trasfigurativa che è propria dell’arte, […] si tratta di un avvicinamento all’essere umano per rappresentarne il mistero e testimoniare la sua grandezza, il suo valore, i suoi limiti e le sue debolezze” (2008, p. 11).

Affrontare alcuni autori significa avvicinarsi all’accettazione della messa a lato, temporanea, del patto di finzionalità. È necessario procedere oltre le apparenze, accostarsi alle peripezie dei personaggi accettando di esserne coinvolti in quanto agenti nella nostra vita quotidiana. Ma, di fatto, questa operazione il più delle volte è inconsapevole: un lettore, nell’abitare un testo, una storia, non si chiede dell’effettiva realtà della stessa. È in questo senso che, lungo i secoli, sono nati personaggi che hanno poi segnato spazi reali, si veda Baker Street per Sherlock Holmes, e per intere generazioni il caso della fumettistica che ha come protagonista Topolino.

L’incontro con alcuni personaggi letterari è anche (e forse soprattutto) l’incontro con maschere, rivelazioni, fondazioni emozionali e sentimentali, modi differenti di riorganizzare gli eventi inaspettati. In una certa misura, il livello della finzione si pone come acceleratore esperienziale: il libro, con le sue storie, concentra in uno spazio-tempo limitato (le pagine) eventi che talora impiegherebbero mesi e a volte anni per realizzarsi. La persona che investe il suo tempo addentrandosi negli scenari letterari, da un lato accetta di essere “accompagnata”, per un periodo più o meno breve di vita, da figure e situazioni che non incontrerà più se non all’interno della medesima opera; dall’altro lato, al termine del “percorso”, con una dovuta esegesi del sé, avrà forse la possibilità di riconoscere nuovi stimoli, differenze individuali, afflati inediti: è questo il momento in cui la letteratura, dalla pagina scritta viene incorporata nella propria interiorità così da giungere ad una sorta di riconoscimento personale.

Nel caso del prossimo paragrafo, che prenderà in esame L’idiota di Dostoevskij, capolavoro della seconda metà dell’Ottocento, viene posta attenzione ad un romanzo che sottolinea il valore psicologico ed educativo di uno tra i personaggi più controversi della letteratura russa. Il principe Lev Nikolaevic Myskin, spesso considerato un idiota a causa della natura gentile e compassionevole, è altresì una figura che offre numerosi spunti di riflessione entro le questioni principali della condizione umana. Così, ma in maniera radicalmente differente, Tonio Kröger, figura nata dalla penna di Thomas Mann. Tonio, artista intellettuale e sensibile, è in costante conflitto tra aspetti della sua vita interiore e le relazioni interpersonali. La novella di Mann, altresì, si pone come una estesa riflessione delle aspettative sociali che, non raramente, contrastano con la propria individualità e la creatività.

I due personaggi, nati in epoche e luoghi geografici molto differenti, portano alla luce e “costringono” a fare i conti con alcune tematiche, tuttora vive e in discussione; tra queste, la tensione tra valori e debolezze interiori e pregiudizi sociali; la ricerca di una identità che necessariamente (ma con grande fatica) deve tenersi nell’ambivalenza del conflitto psicologico tra razionalità e passione; la riconsiderazione di alcune nozioni come intelligenza, normalità, gentilezza, diversità, che nelle azioni dei due personaggi emergono talora come provocazione, invito alla riflessione e alla presa di consapevolezza dell’estensione di significato che le anima.

L’idiota di Fëdor M. Dostoevskij

Le opere di Dostoevskij, e in particolar modo L’idiota, riflettono il tema centrale entro il quale l’autore russo ha costruito le sue ambientazioni, definito i suoi personaggi: la difesa dell’uomo, nelle sue molteplici accezioni.

Profondo investigatore del sé, ricercatore di verità, consapevole dell’impossibilità di giungere a “qualcosa” di definitivo ed esauriente, Dostoevskij ha incarnato l’autore del mistero, dei grandi dolori e delle contraddizioni dell’esistenza e altresì del quotidiano. In disaccordo con la psicologia della teoria dei tipi, questo autore intende i suoi personaggi come figure senza connotati fissi, impegnati in ciò che la vita rende difficile rappresentare, ma tuttavia mossi da una tenacia e fiducia nell’enucleare dalla vita stessa (dalle peripezie in cui rigorosamente sono stati inseriti dal loro autore) immagini e significati. Anche i personaggi, nella logica dostoevskijana, sembrano seguire il precetto di Georges Perec (1989): riuscire a stralciare qualche briciola di senso dal vuoto che incombe, dal dramma in atto.

Nell’introduzione si è fatto riferimento alla letteratura come acceleratore esperienziale; non solo, poiché seguendo Jacques Maritain, dovremo rilevare nell’azione tematica il vero slancio insito nelle situazioni letterarie. Così Maritain: “emanando da una costellazione di agenti umani riuniti in una situazione data, li trasporta e di conseguenza regola un certo sviluppo degli avvenimenti nel tempo, conferendo loro un significato determinato. Il paradosso centrale del teatro [e dell’arte in genere] risiede nel fatto che da una parte questi agenti umani sono dotati di volontà libera, è tanto più perfetta in quanto tutto in essa proviene da una necessità interna, così che l’azione deve anch’essa svilupparsi con una necessità inflessibile” (1983, p. 374). Azione tematica, in letteratura, come sovrabbondanza di esistenza, piano parallelo o, meglio, sovrapposto alla vita quotidiana nella quale e personaggi e individui agiscono e affermano se stessi. Questa azione, nel senso acquisito nella filosofia maritainiana, indica la presenza di un sostrato guida (morale, politico, religioso, spirituale) prima negli umani ma, inevitabilmente, anche nelle figure della letteratura: i personaggi di Dostoevskij sono un ottimo esempio di vivere nell’azione tematica, “macchiata” delle caratteristiche che definiscono l’agire dell’autore russo.

Allo stesso tempo, gli individui-fruitori-lettori, in relazione con i personaggi, acquisiscono informazioni e modus vivendi che necessariamente subiscono la traduzione e l’influenza dell’ambiente e delle relazioni interpersonali; in sostanza, per transfugare nella vita reale, le testimonianze a cui si è assistito in letteratura, mutano di operatività ma non di senso: in noi, rimangono vive le catene di significato, purtuttavia mascherandosi per poter emergere ed essere praticate, sottoforma di differenze di espressione individuale, di personalità e comportamenti.

Con L’idiota, Dostoevskij sviluppa un romanzo enigmatico che procede come un monologo interiore. Si tratta di un’opera che, ad ogni lettura, profonde significati; si potrebbe altresì definirla un’opera in emersione: in questo senso, le peripezie del principe Myskin rinascono sempre con una nuova attualità che, in senso interrogativo, Albarea con Giovanni Maria Bertin, si chiede se non siano piuttosto da intendersi come inattuali: “L’idea pedagogica, in quanto tale, dev’essere inattuale: altrimenti non sarebbe idea, ma costume, prassi, ideologia. Inattuale nel senso nietzschiano: nel senso che essa non coincide né deve coincidere (pur non necessariamente rifiutandole o svalutandole) con le tendenze prevalenti nel presente, con le motivazioni e le sollecitazioni che questo fa valere con i suoi problemi urgenti e manifesti. In quanto idea essa dà evidenza, in primo luogo, alle eventuali incongruenze, parzialità, unilateralità di tali tendenze, ed eventualmente ne smonta l’enfasi e ne denuncia la retorica, in secondo luogo fa valere (al loro interno o contro di esse) istanze alternative, misconosciute, conculcate, deformate o mistificate dall’attualità” (Bertin, 1977, pp. 5-6).

L’idea primigenia di Dostoevskij era quella di portare “in scena” un uomo totalmente bello e, in un certo senso, pulito interiormente e spiritualmente. Un uomo buono, che non ha nulla da spartire con il male, e per questo goffo e ingenuo. Tuttavia, sin dal principio, lo scrittore russo sviluppò un’altra idea di personaggio, con delle caratteristiche radicalmente differenti: l’idiota come essere tenebroso, violento, dispotico. Le caratteristiche di questo secondo prototipo di idiota daranno poi vita alla figura di Rogozin, che entrerà in un rapporto di complementarità con il principe Myskin. Quest’ultimo invece, assumerà le sembianze dell’essere buono che si dà interamente a tutti e in ogni situazione, senza riserve, aprendosi all’esistenza, accogliendo nella propria vita le possibilità che si dispiegano di fronte a sé, previste ed impreviste. In tutta l’opera, questo movimento di apertura alla vita, fa i conti anche con un’altra tendenza dell’idiota: la capacità (necessità?) di fornire interpretazioni divergenti agli eventi della vita, soprattutto quelli considerati secondari dalla massa. Per questo, egli verrà frainteso e non raramente deriso.

“Ci sono altre figure nella letteratura che si accompagnano al principe Myskin: Don Chisciotte, ad esempio, in cui come nell’idiota si fondono l’amara ironia, il sublime, l’utopico, il tragico, il visionario, la fede e il dubbio, il candore e l’irrequietezza” (Albarea, 2008, p. 22). In una certa misura, quindi, la goffaggine e l’ironia dell’Idiota non lo rendono esente dalle grandi sofferenze. La derisione e la malattia (epilessia) sono solo due dei tragici eventi descritti, a più riprese, nell’opera. Ma anche una sofferenza dettata dalla malattia dell’epilessia, che viene riportata nei termini di una infelice felicità. Lo scrittore russo, che soffriva di questa malattia, infonde nel suo personaggio lo stato d’animo che anticipa la crisi. Ma non si tratta di un “prestito caratteriologico che l’autore fa al suo eroe” (Strada, 1994, p. XVII); piuttosto, è la testimonianza di una condizione di molteplici sensazioni che “danno il la” ad uno stato di felicità impossibile in condizioni normali. Per Dostoevskij, si ricordi, l’epilessia ha un carattere mistico e sacro. In particolare, lo scrittore russo si sofferma sulla descrizione dell’aura estatica, ossia quella componente psicologica dell’epilessia psicomotoria che costituisce l’evento iniziale della crisi. È costituita da significative alterazioni cognitive come illusioni e distorsioni delle percezioni, allucinazioni visive e sensazioni di estraneità. Non mancano, esperienze di depersonalizzazione e di autoscopia, che a lungo andare possono influenzare la creatività e l’organizzazione neurofunzionale del cervello.

In un punto centrale del libro, che merita di essere riportato, l’autore russo, immedesimandosi con il suo personaggio, descrive (attraverso un approccio che sfiora la mistica) il fenomeno dell’epilessia come stato esistenziale: “frammezzo alla tristezza, al buio dell’anima, all’oppressione, il suo cervello pareva a tratti infiammarsi e tutte le sue forze vitali si tendevano di colpo con impeto eccezionale. Il senso della vita, dell’autocoscienza si decuplicava quasi in quegli istanti, rapidi come lampi. La mente e il cuore s’illuminavano di una luce straordinaria: tutte le ansie, tutte le inquietudini, tutti i dubbi sembravano placarsi all’improvviso e risolversi in una calma suprema, piena di limpida ed armoniosa gioia e speranza, piena d’intelligenza e pregna di finalità. Ma questi momenti, questi sprazzi di luce non erano che il preannuncio di quel definitivo minuto secondo (ma più di un secondo) con cui s’iniziava l’accesso. E questo secondo, naturalmente, era intollerabile” (Dostoevskij, 1994, p. 224).

Nel minuto secondo, emerge la messa in discussione degli stati del minuto primo, ma allo stesso tempo la sottomissione all’idea che tutto è malattia, e che, alla fine, se tutto è anormalità, allora essa si rivela formata in sommo grado di armonia e bellezza, infusione di senso all’inaudito e scoperta della pienezza di ciò che non è ancora conosciuto. Ma, di nuovo, la riflessione pare all’idiota troppo debole, in confronto alla sofferenza, generata anche solo per un attimo, nel minuto secondo. L’armonia e la transfugazione delle ansie e dei turbamenti della vita, così lucidi nel minuto primo, sono frutto di un errore? Ecco l’angoscia che riporta in discussione, per intero, l’esperienza. Tuttavia, l’idiota si chiede: “Se in quel minuto secondo, cioè nell’estremo attimo cosciente prima dell’accesso, riusciva a dire a se stesso con lucida consapevolezza: ‘Sì, per questi momenti si può dare tutta la vita’, allora, certo, quel momento doveva valere da solo tutta la vita” (ivi, p 226). Il personaggio del principe Myskin, qui, sembra sfuggire dalla penna dello scrittore russo (oppure, sembra coincidere con lui?).

Il principe Myskin, con la sua malattia, la sua goffaggine e ingenuità, emerge come uno sconfitto? Restando tra le righe del romanzo, la risposta immediata potrebbe essere positiva. Tuttavia, ancora oggi, questa figura dostoevskijana ci interpella evidenziando il valore inattuale della perdita e delle contraddizioni; la possibilità di far di queste il materiale potenziale per la crescita, anche paradossale e che supera ogni forma di educazione tradizionale. L’idiota, raccontandosi e relazionandosi con gli altri personaggi, nelle più svariate situazioni, testimonia ispirazioni e aspirazioni.

La semplicità e l’assenza di secondi fini, avvicinano il principe Myskin ad una maggiore comprensione (e ascolto) dei più piccoli. Dirà, a proposito dei bambini, che gli adulti non tengono sufficientemente in considerazione il loro pensiero e che proprio dal loro pensiero scaturiscono, non raramente, preziose indicazioni per i problemi degli adulti. Non solo: avvisa il lettore (riferendosi agli altri personaggi, a quelli “non attenti” al mondo dei più piccoli) che i cosiddetti “grandi” dovrebbero rimettere in discussione il tipo di relazione e di educazione dei bambini; infatti, sostiene l’Idiota, nascondendo la maggior parte delle questioni, gli adulti da un lato tengono fuori i bambini da una buona parte della vita sociale, dall’altro si pongono nei loro confronti attraverso un rapporto gerarchico la cui divisione principale vede, a un livello più alto, quelli che “sanno”, e al più basso quelli che “non possono capire ancora”.

Emerge, attraverso le riflessioni che Dostoevskij infonde nell’idiota, un’idea di bambino come colui che può ancora dire qualcosa di divergente, proprio perché non ancora del tutto inserito nel meccanismo sociale e professionale. In una certa misura, l’idiota, appartiene all’insieme di cui fanno parte anche i bambini, più di quanto non sia presente e attivo nell’insieme (nel mondo organizzato) degli adulti. “In una società alla ricerca del benessere, del potere e della conquista, il destino del principe è quello di suscitare, paradossalmente e conflittualmente, diffidenza, incomprensione e amore. Persino le sue parole più dirette chiare e schiette sono fraintese e mal giudicate. Egli è trattato come una curiosità, la persona onesta rappresenta spesso un enigma” (Albarea, 2008, p. 31).

Dopo innumerevoli peripezie che hanno visto l’idiota protagonista, egli deciderà di confessare ancora più specificatamente di quanto non ha sempre fatto attraverso i suoi comportamenti, la sua posizione, la sua filosofia. Sosterrà, molto chiaramente, che è naturale essere ridicoli e incompleti, goffi e lenti di comprensione: “Per raggiungere la perfezione, bisogna cominciar dal non capir molte cose. E se si capisce troppo presto, può accadere che non si capisca bene” (Dostoevskij, 1994, pp. 544-545).

Tonio Kröger di Thomas Mann

Tonio Kröger e l’idiota presentano alcune similitudini e differenze significative. Tra queste, il fatto che entrambi i personaggi sono alla ricerca di un senso più elevato della vita per come essa si dà nel senso comune; essi, sono spinti da desideri di purezza, nell’assenza di secondi fini, sempre avendo come fuoco dell’attenzione (slancio vitale) la verità e la bellezza. Innumerevoli sono le situazioni in cui, entrambi, si dimostrano sensibili e riflessivi, capaci di ascolto dei loro afflati e in grado di percepire delle sfumature delle esperienze umane a cui spesso non viene data la giusta attenzione. Non solo, entrambi vivono anche il senso dell’isolamento e della marginalizzazione, proprio a causa delle stesse caratteristiche peculiari che ne determinano le differenze individuali.

Il contesto storico è molto diverso. Tonio è un personaggio del XX secolo che vive nella società borghese tedesca, mentre il principe Myskin è un personaggio del XIX secolo della Russia zarista. Il luogo geografico ha plasmato, in entrambi, una certa inclinazione alla creatività. Nel caso di Tonio, quest’ultima qualità, si rifletterà poi nei costanti conflitti che lo condurranno a fare i conti con la propria individualità artistica in rapporto alla pressione del conformismo nella società borghese; il principe Myskin, invece, viene sopraffatto dalla meschinità delle persone che incontra, non riuscendo mai a comprendere del tutto le intricate questioni della società russa.

Tra i nuclei tematici centrali che caratterizzano i personaggi manniani, e più specificatamente la figura letteraria di Tonio Kröger, si distingue l’arte come espressione individuale e di difesa, in un’epoca di dilagante conformismo, e ancora l’arte si presenta come mezzo per affrontare le tensioni provocate dall’urgenza di comunicare a sé e agli altri gli aspetti della propria unicità. Il secondo tema, che emerge con una certa forza narrativa, riguarda l’alienazione e il conflitto interno. Tonio è spesso radicalmente distante dai modi di fare e di concepire il mondo della sua famiglia; tormentato da profondi conflitti emotivi e sentimentali, questi finiranno per infondere tragicità anche ai rapporti con Hans Hansen e Ingeborg Holm. Il rapporto con Hans, ad esempio, rappresenta un rapporto che si sviluppa tra polarità opposte e nel confronto tra creatività artistica e atteggiamenti borghesi. L’idealismo di Tonio si scontra qui con le convenzioni sociali praticate da Hans, che aspira ad una vita comune, stabilizzata nell’habitus che da generazioni ha conosciuto la sua famiglia. Tuttavia, sin dall’inizio, Hans è un punto di riferimento per Tonio, nonostante le divergenze rispetto alla visione della vita. Tali divergenze avranno la meglio quando, in un atto di quasi totale sottomissione alla forza del senso comune che “cattura” Hans, Tonio riconosce la propria estraneità rispetto alla vita dell’amico, fino a riempire i suoi pensieri di enigmaticità (e misteriosità): “Perché mai sono così diverso dagli altri e in conflitto con tutti, mal visto dai professori, estraneo in mezzo ai miei compagni? Guardali un po’ come sono, i bravi scolari, i tipi solidamente mediocri! Non trovano ridicoli i professori, non scrivono versi, pensano soltanto quelle cose che devono essere pensate e che si possono esprimere a voce alta. Come devono sentirsi in regola e d’accordo con tutto e con tutti! Dev’essere bello…Ma io, allora che cos’ho? E come finirà?” (Mann, 1970, p. 212).

Tonio sta in between, da un lato egli si trova in contrasto con il senso comune e con l’habitus assimilato dalla maggioranza, dall’altro dimostra una capacità esegetica che si conclude in atti di riflessiva compassione nei confronti di chi, poco prima, combatteva con idealismo.

Tonio, e non solo per queste qualità dell’animo che lo caratterizzano, si pone a tutti gli effetti come una figura letteraria testimone di profondi messaggi educativi. Come per il modus vivendi del principe Myskin, altresì emerge quale figura inattuale che proprio per questo è in grado di illuminare alcuni aspetti della contemporaneità. La distanza che incorre tra noi e questi personaggi rende il loro messaggio, il loro comportamento, poco familiare e per questo tale da schiudere dubbi e aprire nuove prospettive per investigare la condizione umana.

Una serie di sconfitte e perdite segna la vita del protagonista, non ultima la morte del padre e la chiusura della ditta commerciale, la partenza della madre che si risposa e si trasferisce nel meridione; perdite come fratture che obbligano Tonio a “curvare” dentro sé, provando ad intercettare nuove vie, nuove direzioni verso cui rivolgersi. Ma non poteva che incontrare la strada che sin dall’inizio ha orientato il suo modo di essere e di relazionarsi con il mondo: l’arte, la letteratura. Essenziali e celebri sono le parole che Mann utilizza per descrivere l’entrata definitiva di Tonio nel mondo “maledetto” della letteratura; quest’ultima “acuì il suo sguardo, gli rese trasparenti le grandi parole che gonfiano il petto degli uomini, gli dischiuse l’anima degli uomini e la sua propria, lo fece chiaroveggente e gli mostrò l’essenza intima del mondo e tutto, tutto quello che sta dietro le parole e le azioni. Ma che cosa egli vide? Comicità e miseria: nient’altro che comicità e miseria” (ivi, p. 239).

In questo senso, l’arte e la letteratura sono dispositivi che consentono a Tonio di farsi un’idea ancora più precisa della società che già in precedenza sopportava con difficoltà e che ora, descrivendola in termini di comicità e miseria, lo porta a sancire ancor di più il divario tra sé e la stessa con una distanza ancora maggiore. Tale dissociazione è causata ora dalla presa di consapevolezza dell’inutilità, della vanità, dell’illusione profuse negli ambienti che gli altri frequentano. Questo si riflette irrimediabilmente in questa figura letteraria aggravandone la condizione di diversità e di esclusione (auto-esclusione?) che egli percepiva già dall’adolescenza.

Tonio inizia a viaggiare, si dà all’erranza (che per una certa psicopedagogia, si ricordi, è la seconda qualità da garantire nel processo di sviluppo del bambino, in contemporanea al senso di appartenenza). Quasi improvvisamente, finisce nelle dinamiche della lussuria, si lascia “catturare” dal peccato fino alla saturazione del piacere. Continua a lavorare, ma in solitudine, chiuso, muto, forse persino disprezzante nei confronti della propria persona. Questo modo di vivere gli procura la fama, condizione che discuterà con la pittrice e cara amica Lisaveta Ivanovna, definendo la fama artistica la risultante di un processo progressivo di allontanamento da se stesso. “Una situazione stranamente lontana e neutrale” (ivi, p. 236) che garantisce la possibilità di realizzare rappresentazioni, di giocare con raffigurazioni della condizione umana; per questo secondo-Tonio, l’atteggiamento asettico verso l’umano, lo svuotamento del senso dei fenomeni della vita, definiscono l’artista, diverso dall’uomo, invischiato nelle sensazioni della fondazione emozionale e sentimentale.

“La letteratura non è affatto una vocazione: è una maledizione” (ivi, p. 238). Tonio, punta il dito contro gli altri, che non comprendono e così facendo non accolgono l’altro nelle sue differenze, anzi, gli altri che cercano di porsi come “forza magnetica” che trascina il soggetto verso l’ordinario. Una maledizione, la letteratura, che segna il corpo fino a rendere l’individuo diverso, buona preda degli occhi altrui che senza difficoltà ne riconoscono l’estraneità, la diversità e la goffaggine.

Vittima di sguardi e pregiudizi, Tonio sente il desiderio di essere accolto e una acuta nostalgia verso una amicizia a lui confacente. Continua a viaggiare, erra, lascia Monaco per rifugiarsi nella casa natale del padre, da lì si imbarca per la Danimarca. Qui avviene il nuovo incontro con Hans e Ingeborg Holm, insieme. Le crome sentimentali dello stato d’animo di Tonio assumono una dinamica radicalmente differente rispetto a quanto non avveniva prima dello sbarco in Danimarca. Trascorre delle giornate drammatiche, senza il coraggio di rimanere vicino all’amico e alla ragazza che ha tanto amato. Li osserva, lungamente, prende consapevolezza della sua condizione di lontananza, radicale diversità provocata da un dolore senza precedenti. Quest’ultimo evento sancisce definitivamente lo smarrimento: né borghese né artista, nel frammezzo in una accettazione dell’impossibilità di stabilizzarsi in una identità, chiara, definita, ben riconoscibile.

In questa doppia assenza identitaria, non si risparmierà nell’affermare che ha amato la vita e tentato di far fronte alle molteplici occasioni di gelosia, anch’esse percepite come avventure dei sensi e dei nervi che, in ogni caso, nella sua esperienza umana, non riusciranno a scalfire l’amore per l’umano. Quell’umano che nella visione di Tonio ha abdicato, nella configurazione della massa, all’arte e alla cultura. Di più: ha esonerato l’arte e la cultura dalla vita di società. In questo senso, leggendo l’opera di Mann, ritorna alla memoria il lavoro di Ivan Illich che dagli anni Sessanta del Novecento ha messo in luce la problematica relativa l’istruzione e la richiesta di adeguamento ai contesti attraverso la passività. Una passività testimoniata, secondo Illich, dalle figure di cura, prime fra tutte gli insegnanti, i quali invece dovrebbero testimoniare la passione del pensiero critico e la motivazione all’auto-apprendimento. Sempre nella sua opera Deschooling Society (1971), l’autore ha sostenuto l’idea che l’istruzione dovrebbe essere decentralizzata per garantire, ai singoli individui, una maggiore responsabilità (e quindi attività) nei confronti della propria formazione. Infatti, una delle questioni centrali del pensiero illichiano, che emerge anche nell’importante saggio dedicato alla convivialità e alle soglie di mutazione (1973), è la questione della passività che schiude all’alienazione in materia di consapevolezza della propria persona, più specificatamente dei propri limiti e potenzialità.

La controproduttività delle istituzioni, così come veniva identificata dall’autore, anche nella forma delle istituzioni educative, non raramente raggiunge il risultato opposto a quello prefissato, ossia la dipendenza e l’inefficienza, fino alla quasi totale delega ai professionisti delle proprie questioni intime. Riflette il modello di conformità che, in altri termini, discuteva Tonio Kröger puntando il dito verso Hans e raccontandosi, nella disperazione e rabbia, alla cara amica Ivanovna.

Note conclusive

Uno dei primi studiosi delle scienze umane che si è occupato di narrazione è stato Jerome S. Bruner (1992; 1993). La tesi di Bruner è duplice, perché da un lato afferma che la narrazione, come dispositivo culturale, plasma la mente umana fornendo i mezzi attraverso i quali possiamo interpretare in maniera decisamente più estesa i fatti del mondo e la concezione di noi stessi; dall’altro, amplifica notevolmente le peculiarità dei sistemi culturali, moltiplicando i set comportamentali a seconda del loro darsi in contesti storico-geografici specifici. Non solo: i rituali, la pittura, la scrittura e la narrazione, possono essere intesi come un deposito, una estensione che “ci permette di trascendere i limiti insiti nella nostra struttura biologica” (Mithen, 1998, p. 133).

Nell’articolo Does beauty build adapted minds? (2001), John Tooby e Leda Cosmides individuavano nel decoupling il motivo profondo che soggiace all’arte e alla letteratura. Il decoupling (disaccoppiamento) sembra essere la base dell’immaginazione, e si pone come facoltà tipicamente umana, di elaborare informazioni non legate alla contingenza, sviluppando e in un certo senso “allargando” lo spazio immaginale. Si schiudono così innumerevoli possibilità, elencate qui di seguito, che hanno a che fare con la finzione, necessarie sia alle relazioni che all’adattamento socio-culturale: “Il può-essere-vero, il vero-laggiù, l’era-vero-un-tempo, il ciò-che-gli-altri-credono-sia-vero, il vero-solo-se-l’ho-fatto-io, il non-vero-qui, il ciò-che-gli-altri-vogliono-farmi-credere-sia-vero, il sarà-vero-un-giorno, il certamente-non-è-vero, il ciò-che-mi-ha-detto, il sembra-vero-sulla-base-di-queste-assunzioni, e via discorrendo.” (Tooby e Cosmides, 2001, p. 20).

Ricordare e rievocare mentalmente e attraverso molteplici supporti mediali ciò che è desiderabile e indesiderabile, ciò che è familiare e non familiare, consente all’umano di avere a disposizione un numero consistente di versioni del mondo (per usare un lessico goodmaniano) per comprendere se stesso nelle varie epoche della vita e nelle sfaccettature individuali che andranno a costituirsi crescendo, e nondimeno per comprendere gli altri, appartenenti agli stessi gruppi o a gruppi esterni. È in quest’ottica che due personaggi letterari centrali nella storia della letteratura a cavallo tra Otto e Novecento, non solo segnano le pagine e le vicende editoriali di un’epoca, ma sono stati fondamentali (e continuano ad esserlo) nel segnare il quotidiano di molte delle persone che si apprestano a fare i conti con le tensioni e le gioie delle storie de L’idiota e di Tonio Kröger. Altresì, hanno modellato e modellano il modo di intendere il soggetto e la sua personalità, la quale si potrebbe senza esitazioni definire affetta non patologicamente da molteplici sfaccettature, profondamente sensibile agli ambienti e all’umore proprio e delle persone vicine. In definitiva, come si è detto, nell’introduzione al presente saggio, due narrazioni che si propongono come acceleratori esperienziali e pedagogici, e cioè che consentono di fare i conti con innumerevoli versioni di spannung, di tavolozze emotive e di messaggi educativi, che impiegherebbero molti mesi ad emergere nell’altalenante procedere della vita quotidiana.

Riferimenti bibliografici

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L'autore

Enrico Orsenigo è dottorando in Learning Sciences and Digital Technologies, tutor di Digital Robotic Therapies e Storia della psicologia (UNIMORE). È autore di pubblicazioni, tra cui: Rossi L. e Orsenigo E., Pensare per orientare: suggestioni su convivialità e società degli apprendimenti, in The Lab’s Quarterly, XXIV(3), 2022, pp. 45-73; Rossi L., Orsenigo E. et al., Contesto Familiare/Culturale nel Divide Generazionale introdotto dalle tecnologie digitali, in The Lab’s Quarterly, XXV, 2023.