Un’educazione al lavoro e per il lavoro: l’eredità rousseiana in evoluzione | An education to work and for work: the Rousseian legacy in evolution

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Abstract

Una rilettura critica sulla formazione-al-lavoro a partire da un focus rousseiano, annettendo ad esso visioni autorevoli anche contemporanee. Oltre i dati statistici riportati, ritengo che i limiti presenti  nella metodologia dell’alternanza scuola lavoro possono essere riconducibili ad una mancata predisposizione culturale da parte degli studenti e ad un carente impianto pedagogico della metodologia, che miri ad una reale formazione ontologica dei giovani di oggi, futuri adulti di domani.


Esiste un ordine non meno naturale e ancora più sensato che consente di classificare le arti in base ai rapporti di necessità che le uniscono, mettendo al primo posto le più indipendenti e all’ultimo quelle che dipendono dal numero maggiore di altre arti. Tale ordine, dal quale scaturiscono importanti considerazioni su quello della società in generale, è simile al precedente e sottoposto allo stesso rovesciamento nella valutazione degli uomini. Così la trasformazione iniziale delle materie prime si rivolge nell’ambito di mestieri senza prestigio e mal retribuiti; al contrario più si allunga la catena delle trasformazioni, più si accrescono i compensi della mano d’opera ed il suo prestigio. Non sto a discutere se è vero che le arti di precisione che attribuiscono l’ultima forma alla materia prima richiedano maggiore abilità e meritino quindi una migliore ricompensa, rispetto al primo lavoro che le trasforma in modo tale che gli uomini possano utilizzarle; ma affermo che in ogni aspetto l’arte il cui uso è più generale e indispensabile è, senza discussione, quella che merita maggiore stima, e che quella che ha bisogno del minor numero di altre arti la merita in maggior gradi rispetto a quelle più dipendenti, in quanto più libera e più vicina all’autosufficienza. Ecco le vere regole per valutare le arti e l’industria; tutto il resto è arbitrario e dipende dall’opinione.[1]

 In questo modo esorta Rousseau, quando si parla di “arti e industria” ovvero del lavoro. Si perché benchè la prima cattedra di Pedagogia del lavoro, risale in Italia al 1955 con Aldo Agazzi, “ma è con Rousseau che il lavoro diventa ambito di educabilità ed area critica di individuazione della vocazione personale.”[2] Il Nostro affronta in modo ever green questo argomento con Emilio, 1965, nel libro III, quando il suo educando attraversa il terzo stadio dell’infanzia(da lui dedfinita così) ovvero in quella fascia d’età che parte dai 12 anni circa e termina con la pubertà, verso i 15 anni. Secondo Rousseau questa è l’età idonea per preparare il discente al lavoro ed i motivi sono vari: in primis , il giovane ha una forza fisica, maggiore di quanta glie ne possa effettivamente servire, e ciò avviene solo in questa fase della vita. È l’età giusta per studiare ed imparare ciò che utile, è “il tempo del lavoro, dell’struzione, dello studio. E notate come non sia io a compiere arbitrariamente questa scelta, ma la natura stessa ad indicarla.”[3] È, secondo l’ordine di un’educazione negativa, il momento in cui Emilio può consapevolmente applicarsi nel lavoro, ma non per imparare il lavoro in se, ma per comprendere la condizione di chi lavora. Comprendere il lavoro come mezzo per lo sviluppo della propria persona, e non come fine esclusivamente economico. Un mezzo che possa portare ad una condizione di autosufficienza per se stesso, di sostentamento per la propria famiglia e coerentemenete con il pensiero illuministico di quel periodo, emerge una celebrazione del lavoro come bene comune che porta con se il diritto ed il dovere di tutti i cittadini ad operare e restituire alla società, ciò che ogni individuo dalla società dispone grazie alla società stessa. Una responsabilità al dare-e-avere. Questa fase evolutiva viene definita ancora da Rousseau come un “periodo brevissimo” perciò, il tempo “è necessario impiegarlo al meglio.” [4]

Contrariamente da quanto di solito emerge, qui il Nostro, non vuole che in questa fase si possa perdere tempo, in senso letterale. Come ben emerge nelle pagine precedenti del libro, il tempo non è mai perso nell’educazione, anzi si deve perder tempo  perché il tempo è della natura e la natura scandisce i ritmi e le curiosità del fanciullo. Non sono quei ritmi imposti dall’educatore che devono prevalere, ma è il tempo secondo la natura propria dell’educando , che bisogna seguire. Notiamo qui una rivoluzionaria metodologia pedagogica, impensabile nel ‘700. Precursore di una prospettiva, come diremo oggi, learner-centered anziché teacher-centered.

Rousseau parla di “regole” di valutazione del lavoro. Inusuale anche questo, visto che quasi tutto il suo dispendio di energie a seguito della pubblicazione dell’Emilio o dell’educazione, si è sversato nel difendersi da chi non aveva appreso in toto la valenza morale e critica del romanzo piuttosto che la sua valenza da manuale o istruzioni per l’uso nell’educazione integrale dei fanciulli. Chi ha provato a seguire pragmaticamente il suo metodo educativo, ha ottenuto tutt’altro che i risultati attesi e dichiarati da Rousseau. Si pensi al buon Pestalozzi ed alla non felice sorte del  figlio. Interpretiamo quindi il termine regole come un pensiero critico sulla divisione sociale del lavoro che fornisce una chiave di lettura per imparare “a giudicare il valore di ciò che essi producono non secondo l’opinione comune, ma in base a due criteri: quello di utilità e quello della maggiore o minore dipendenza di ogni arte dalle altre.”[5] Precursore da un punto di vista pedagogico anche in questo. Valori e criteri che a mio avviso oggi mancano; vivendo in una società capitalista la concezione lavorativa è sicuramente fondata più su teorie economiche-efficientistiche che umanistiche: si ambisce a lavori ove non sia richiesta troppa fatica, il guadagno sia semplice ed immediato, possibilmente con posizioni dirigenziali piuttosto che operative o mansionarie. I valori rinascimentali che emersero sulla rivalutazione della dignità del lavoro manuale, della sua forza creativa e creatrice, oggi più che mai vengono meno. Pensiamo a Leonardo Da Vinci per esempio, omo sanza lettere, ma dal genio produttivo indiscusso.

Alcuni numeri

Leggendo i dati pubblicati dal Miur a seguito delle iscrizioni on line per l’anno scolastico 2019-2020 delle scuole superiori di secondo grado si evince il trend in crescita per il Liceo, scelto dal 55,4% degli studenti, a fronte dei Professionali, in lieve calo,scelti dal 13,6% dei ragazzi, e del 30,7% che ha scelto un Istituto Tecnico, dove viene confermata la stabilità nella scelta del settore economico. [6]

Dati che ci mostrano il permeare di una visione gentiliana nella suddivisione scolastica che va a riversarsi nella fiducia posta nei licei anziché nelle scuole professionali. Una sfiducia che a mio avviso possiamo collegare alla messa in discussione da parte delle giovani generazioni, del sistema dell’alternanza scuola-lavoro , per la sua natura prettamente lavorativa e meno formativa che poco è riuscita ad incentrarsi sullo sviluppo umano vero e proprio del singolo studente. Un’ istituzione formativa, inserita all’interno di un trilaterale contratto di apprendistato scolastico, ove il giovane lavoratore ha visto il prevalere delle logiche sindacali ed aziendale sulle sue finalità culturali ed educative, diversamente da quanto veniva idealmente prescritto dalle riforme Moratti e Biagi nelle leggi del 2003. [7]  “La fecondità imprenditoriale italiana degli anni Cinquanta e Sessanta fu accompagnata e amplificata dalla diffusione dell’istruzione tecnica. Tra il 1950 e il 1960 le iscrizioni in questo canale formativo aumentarono addirittura del 73%. E non si fermarono: nel decennio successivo la crescita fu superiore al 60%. Solo nel 1975 iniziò la diminuizione degli iscritti, in parte per la saturazione occupazione delle professioni di naturale assorbimento, in parte per la crescente liceizzazione determinata dal mutato paradigma culturale.” [8] Ancora oggi, dal “boom economico” italiano, l’impianto formativo scolastico delle scuole secondarie superiori vede al centro del processo formativo, le imprese e le esigenze economiche territoriali, piuttosto che i giovani ed i loro bisogni educativi reali: tutto ciò sfocia in una costante creazione di lavoratori-studenti utili alle logiche consumistiche della globalizzazione del mercato del lavoro. Questa tensione tra il locale ed il globale genera le conseguenze che attualmente stiamo vivendo, giustificate per altro da un sistema scolastico strumentalizzato dall’economia: una riduzione delle retribuzioni minime ed una sempre più maggior richiesta di flessibilità nell’attività lavorativa , spesse volte a scapito della propria vita privata-personale nonché di minor tempo da dedicare al proprio sviluppo culturale. Il dualismo tra il saper fare ed il sapere, che la scuola ha tentato di superare con le normative in materia di alternanza scuola-lavoro, viene ripreso e rimarcato nel reale mondo del lavoro che i giovani studenti si trovano ad affrontare dopo la scuola, facendo svanire così il disincanto di un mestiere profetizzato che non c’è. Benchè “sul piano metodologico, il laboratorio, le esperienze svolte in contesti reali e l’alternanza scuola-lavoro sono strumenti indispensabili per la connessione tra l’area di istruzione generale e l’area di indirizzo; sono luoghi formativi in cui si sviluppa e si comprende la teoria e si connettono competenze disciplinari diverse; sono ambienti di apprendimento che facilitano la ricomposizione dei saperi e coinvolgono, in maniera integrata, i linguaggi del corpo e della mente, il linguaggio della scuola e della realtà socio-economica.” [9] (Massagli 2016, p.122)

Non si vorrebbe mettere in dubbio l’indispensabilità di questa metodologia pedagogica(o strumento?) da un punto di vista della formazione al lavoro ma, possiamo davvero considerare a questo punto il nostro sistema duale learner-center? [10]

Mi pare abbastanza palese in realtà , benchè i buoni propositi educativi del metodo (d’impronta rousseiane) di quanto sia stato necessario invece da un punto di vista legislativo, realizzare (forzatamente) i metodi dell’alternanza centralizzandosi sui bisogni  imprenditoriali emergenti nei singoli territori. Senza la disponibilità delle aziende ad ospitare per un periodo di formazione gli studenti, d’altro canto, l’alternanza scuola-lavoro non sussisterebbe. “Tale condizione[quella dell’aver praticato l’alternanza] garantisce un vantaggio competitivo rispetto a quanti circoscrivono la propria formazione al solo contesto teorico, offrendo nuovi stimoli all’apprendimento e valore aggiunto alla formazione della persona.”[11]

Come nell’Emilio, dove il precettore Rousseau sceglierà per lui il mestiere del falegname, a discapito dei principi basati su un’educazione negativa tanto dichiarati, così per i giovani studenti di oggi, le loro esperienze formative “sul campo” saranno guidate dalle necessità del mercato del lavoro , piuttosto che dalle loro necessità formative, come rimarcato invece dalla legge sulla “Buona Scuola” del 2015 realizzata nel governo Renzi. Le preferenze delle scelte scolastiche che emergono dai dati sopracitati per le iscrizioni nella scuola superiore di secondo grado, a mio avviso, fanno emergere i risultati di un fallimento della legislazione italiana che mal ha saputo valorizzare un apprendimento esperienziale basato sull’alternanza dello studio e del lavoro, dove i due fossero interdipendenti (alternanza orizzontale) e non escludenti l’un l’altro(alternanza verticale). La formazione ad una cultura più umanista che on the job, non ha perso mai di credibilità nel Bel Paese. Credibilità che invece ha faticato e fatica tutt’ora ad ottenere la metodologia pedagogica (mal posta) dell’alternanza.

Rousseau inizia a parlar di lavoro attraverso una valutazione ed una critica opposta a quello che il pensiero della società(aristocratica) in generale riferiva in merito all’attività lavorativa. Lui, che quasi mai conobbe nella sua vita una vera indipendenza economica derivante da attività lavorativa, indica una scala dei lavori più rispettabili sulla base di ciò che essi producono e di come questi siano indipendenti da altri lavori. Quegli stessi lavori che venivano considerati in minor misura rispetto ad altri, perchè magari più faticosi, ma comunque più utili, nell’accezione rousseiane. L’utilità dei lavori ha un principio: quello morale, tanto quanto è morale la critica all’inutilità del lusso e degli oziosi , che in caso di sovversione imprevista e catastrofica della loro posizione sociali, mai saranno in grado senza la capacità di lavorare, di far fronte alla loro sopravvivenza. In particolare il riferimento è a coloro che vivono agiati nella società parigina, tra feste e banchetti e non si curavano di “saldare il loro debito con la società” ; non erano consapevoli della fatica di chi viveva in campagna e realizzava i prodotti di cui loro si nutrivano, o di chi sempre per loro , fabbricava sedie o “posate d’argento”  con tanta fatica. Fatica inosservata e scontata che passa in secondo piano a quel popolo che in realtà non è tutto il popolo francese, ma è la classe dirigente che non lavora e vive a spese di altri che invece sudano e si guadagnano da vivere lavorando. Quella stessa classe dirigente che ha permesso a Rousseau però di vivere gran parte della sua vita agiato. Ma lo sappiamo, il Rousseau educatore di Emilio,non è il Rousseau bibliografico del libro Les Confessions, pubblicato nel 1782. Ma lui per Emilio vorrebbe altro. Emilio è il futuro cittadino francese, sicuramente aristocratico, ma la sua educazione è impensabile senza una formamentis al lavoro. Un’educazione lontana dai vizi, della città e dalle inutilità pratiche che non seguono le vie della natura. Rousseau quindi mostra e fa provare al suo allievo, il lavoro, attraverso l’esperienza pratica in bottega esaltandone (coraggiosamente) la dignità del faber e l’amore per la campagna. Luogo dove lo stesso Rousseau dichiarerà poi nelle Confessions “ Mi sentivo fatto per la vita ritirata e la campagna; mi era impossibile vivere felice altrove”.[12] Da importanza alla pratica nell’esperienza educativa, piuttosto che allo studio precoce (ed inconscio) dai libri di scuola. Principio che fortunatamente non sarà dimenticato, ma sarà ripreso nelle riflessioni pedagogiche di alcuni grandi nomi, quali Dewey J. e A. Kolb. Il secondo concettualizzerà poi l’apprendimento esperienziale, o experential learning, attraverso il Learning Circle: “la conoscenza, secondo Kolb, è la risultante della transazione tra esperienza soggettiva ed esperienza oggettiva[…] Tale transazione avviene all’interno del processo apprenditivo[…]” l’apprendimento quindi “ha struttura olistica[…] è un processo di trasformazione all’interno del quale componenti in opposizione iniziale, agiscono in maniera interdipendente per eventualmente mantenersi o essere elaborati ulteriormente.”[13] Kolb teorizza semplicemenete che la pratica , ovvero l’esperienza concreta(primo componente) solo attraverso l’osservazione/riflessione (secondo componente) che avviene per il tramite della concettualizzazione astratta di ciò che si è fatto, può diventar “propria” e sperimentandola ulteriormente, questa volta in modo consapevole, può produrre una vera “esperienza nel mondo”. Una tensione continua tra il fare e l’intenzionalità che genera una personale rappresentazione simbolica del mondo, indipendente quindi come diceva Rousseau, dall’opinione altrui.

La formazione professionale

“La prima e la più rispettabile tra tutte le arti è l’agricoltura; metterei al secondo posto la fucina, la carpenteria al terzo e via dicendo. Un bambino che non sia stato abbindolato da giudizi banali la penserà esattamente allo stesso modo.”[14] All’agricoltura viene ridata quella dignità che solo una rilettura storico-pedagogica della prima rivoluzione agricola, potrebbe far valere in tutta la sua potenzialità generatrice sociale. Ma Rousseau sceglierà per Emilio (unica volta in cui l’educatore sceglierà per l’educando), il mestiere del falegname , poiché lo considera un lavoro non eccessivamente gravoso sulla salute fisica del fanciullo ne tanto meno è sgraziato, anzi richiede abilità e precisione. Come Robinson Crusoe ,unico libro che legge, Emilio deve imparare come un artigiano a prodursi da sé il necessario per vivere, e per fare ciò il suo educatore gli fa prima visitare varie botteghe e dopo si trasferirà in casa dall’artigiano della bottega prescelta, dove lavorerà e vivrà ;sarà il suo nuovo maestro, di vita e professionale. Condividerà con lui la quotidianità, proprio come accadeva nel periodo delle corporazioni, con l’apprendista ed il mastro di bottega. Ci accostiamo al concetto di un’educazione integrale, per la formazione del corpo , della mente e non per ultima ,una formazione professionale. Il metodo ovviamente è induttivo ed emerge la non formalità dell’apprendimento, proprio come si presenta oggi l’apprendistato nel nostro sistema duale seppur inserito nel contesto scolastico. Anche l’età di Emilio corrisponde all’incirca a quella che si riscontra oggi tra gli alunni delle scuole superiori quando iniziano l’attività dell’alternanza scuola-lavoro. Il lavoro artigianale di Emilio è quello più libero dai dispositivi culturali dei nostri tempi, e la morale che richiama è la stessa che si dovrebbe insegnare nel momento in cui il lavoro viene presentato in un’ ambiente formale quale la scuola. Non si deve avere una prospettiva unidirezionale nel parlare di formazione al lavoro; non si può far veicolare l’idea che insegnare un lavoro nel periodo scolastico, ha un’ utilità esclusivamente economicistica. Perché in primis si crea un dualismo escludente tra lavoro e scuola, sia in termini teorici sia pragmatici che si riversa principalmente nella scelta di non proseguire con gli studi universitari specialmente da parte di coloro che provengono dal settore tecnico-professionale.[15] Qui la visione del lavoro è strumentale, ovvero è considerato l’unico mezzo che possa portare ad una veloce ed autentica indipendenza e realizzazione personale.  Mentre chi decide di proseguire gli studi universitari esclude nettamente la possibilità che una formazione professionale qualificata possa giungere al termine del percorso professionale o tecnico delle scuole superiori di secondo grado.Si predilige la teoria a scapito della praxis.

Seconda cosa: il mal funzionamento dell’alternanza scuola-lavoro, che ha visto nell’ultimo ventennio un susseguirsi di ministri dell’istruzione , tentar invano modifiche, rettifiche e stravolgimenti alla struttura scolastica italiana, ha prodotto dei dati certi: una bassa occupazione giovanile al quale non si riesce a far fronte. Il tutto aggravato dalla recente crisi economica partita dal 2007, dal quale l’italia non riesce ancora ad uscirne proprio per incapacità di rispondere alla crisi attraverso un impianto strutturale dell’istruzione, che purtroppo risulta nettamente separato dal lavoro. “Lo studio dell’integrazione tra formazione e lavoro richiede una corrispondente integrazione tra pedagogia e diritto per essere compreso nella sua completezza.”[16] Per modificare una cultura, non basta solo cambiare una legge bisogna modificare la cultura stessa, ma non attravreso i suoi dispositivi, bensì attraverso i suoi valori morali, le virtù, l’etica e le esperienze. Attraverso quindi le persone, tutte, e non solo le nuove generazioni a cui è rivolta l’alternanza scuola-lavoro. Bisogna formare, anzi educare al lavoro sin dal principio tutti gli attori sociali coinvolti. Tutto ciò sarà possibile quando emergerà una sensibilità della classe dirigente e la politica prenderà consapevolezza del valore formativo del lavoro. Non bisogna realizzare un’educazione attiva solo offrire operatori al mercato del lavoro. Il lavoro è in primis imparare ad apprendere, e la scuola non può sussistere senza una pratica che generi un’attitudine ed abilità tecniche, sia che esse siano faber sia che si manifestino attraverso il cogito.

Una riflessione dovuta

“Nel secolo XVIII nascono le prime scuole professionali orientate alla formazione dei nuovi tecnici in grado di sviluppare quel tipo di lavoro necessario alla nascente società moderna (si veda ad esempio le scuole lassaliane).”[17]

“Si deve a Johan Heinrich Pestalozzi il merito di aver fornito un’interpretazione più compiuta, rispetto alle precedenti, del concetto di educazione professionale, anche in virtù dell’istituzione di un primo modello di “scuola del lavoro”, che ha introdotto formalmente l’attività pratica e professionale in ambito scolastico.” [18] A questo punto mi chiedo: data la velocità con il quale le competenze professionali diventano obsolete, vale ancora la pena mantenere questa separazione scolastica tra licei,professionali e tecnici? Vale ancora la pena puntare sul tecnicismo formativo? Le esigenze lavorative del XVIII secolo non sono più certamente le stesse di oggi. La mia personale valutazione quindi è no.Non vale la pena neanche tentare di copiare la metodologia dell’alternanza formativa dai paesi tedeschi se poi il nostro sistema scolastico andrebbe modificato a monte, se consideriamo che: “quasi un diplomato su due è pentito della scelta fatta. A dirlo è l’ultimo rapporto Almadiploma […] che ha analizzato le risposte di 85 mila diplomati del 2017 e del 2015 a un anno e a tre dal diploma. Alla vigilia della conclusione degli studi, poco più della metà dei maturandi (il 56%) rifarebbe la stessa scelta, mentre il restante 44 per cento, potendo tornare indietro, cambierebbe strada (l’anno scorso era anche peggio: 54 contro 46 per cento): il 23,7% cambierebbe sia scuola sia indirizzo, l’11,6% sceglierebbe lo stesso tipo di scuola ma andrebbe in un istituto diverso. A un anno dal diploma il quadro si modifica leggermente: la quota di intervistati che rifarebbe lo stesso percorso sale al 58,6% degli intervistati. I meno convinti della scelta compiuta a 14 anni risultano quelli degli istituti professionali, che a un anno dal diploma sono ancora più insoddisfatti di prima. Un dato che non può non far pensare: evidentemente se l’insoddisfazione cresce è perché con il titolo di studio conseguito faticano a trovare un lavoro.”[19] Da qui si evince che nel passaggio dalla scuola media alle superiori, si “costringe” molti dei ragazzi ad una scelta precoce ed inconsapevole del loro percorso di studi, nonché di vita e professionale. Scelta che si dovrebbe ritardare e garantire invece una formazione scolastica superiore improntata ad un curriculum di studi qualitativamente omogeneo, ove non siano previste scelte, che offra continuità didattica per tutti attraverso una cultura approfondita di base scientifico-umanistica indispensabile per garantire una formamentis teorica al lavoro, nonché un savoir-dire ed un savoir-être dove “Il lavoro diventa anche un’area di studio e di analisi specifica nell’ambito dello studio della società nel suo complesso e quindi anche un tema di pedagogia sociale che riguarda dimensioni antropologiche e formative.”[20] In sostanza una formazione su quelle competenze che non sono a rischio precoce di obsolescenza: le soft skills.

Data l’incapacità generale di considerare l’esperienza lavorativa non come parte integrante al curriculum di studi, ma come un’integrazione o una sospensione temporanea della lezioni, mi pare sia più giusto rimandare la più pura applicazione di tale dispositivo pedagogico, durante il periodo universitario. “La qualità formativa dell’alternanza è data dalla natura della relazione che si instaura tra i diversi attori in gioco.[…]una partnership che prevede la comprensione dell’altro e del suo specifico valore, la volontà di cooperazione reciproca, la reale possibilità nello sviluppare azioni congiunte.”[21] Questa qualità può essere garantita solo qualora l’attuazione di questa metodologia e la stessa partecipazione all’attività venga fatta con consapevolezza da parte di tutti gli attori sociali, specialmente gli studenti. Perché “alternare scuola e lavoro non è difficile, basta organizzare tirocini. Quello che accade in Germania è invece una forma di integrazione tra scuola e lavoro di ben maggiore complessità”[22], che da noi non avviene. Non si può presentare l’alternanza scuola lavoro come il fare un lavoro(qualsiasi), ma deve essere il lavoro che rappresenti la propria persona, che sappia generare con coscienza e consapevolezza, una cittadinanza attiva e di pari dignità per qualsiasi livello di esperienza professionale. Non basta un lavoro e saper fare un lavoro; come ben enucleava una massima di Rousseau : bisogna formare prima l’uomo per formare il cittadino. E poiché “il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso[...] -dobbiamo porre- l’enfasi sulla responsabilità sociale nelle organizzazioni, sui temi dell’etica, dell’approccio umanistico nel management delle risorse umane […] il confronto con l’altro, nella consapevolezza della propria identità […] dimensioni come la libertà, la responsabilità, la possibilità di partecipazione, il superamento delle ingiustizie, [che] contribuiscono a definire il senso della dignità di ogni individuo nei contesti di lavoro e quindi attengono alla sfera delle istanze etiche fondamentali. Situazioni di lavoro che violino la dignità della persona umana, sono da condannare in quanto vengono meno al rispetto della natura dell’umano.”[23]

“La pedagogia del lavoro è lontana da una visione meramente economicistica ovvero adattivo-funzionalista del rapporto esistente tra l’individuo ed il lavoro.”[24] Sforziamoci tutti per realizzare una reale integrazione nel sistema scuola della dimensione sostanziale e non letterale del lavoro. Smettiamo dunque di considerarci noi in funzione del lavoro che svolgiamo o del ruolo sociale che abbiamo, per esempio come essere clienti, consumatori, operai, artigiani, dirigenti o altro. Noi siamo il nostro nome, il nostro vissuto e siamo noi che dobbiamo ri-appropriarci della valenza formativa che dal lavoro si può estrapolare, ed esso , deve esserci funzionale per esprimere la nostra identità prima personale e poi sociale. Senza distinzione di livello salariale (nuovo metro di misura per la valutazione di un lavoro “rispettabile”), esso deve garantire uguaglianza nei trattamenti ed una comune appartenenza al corpo sociale globale.“La pedagogia del lavoro non è una disciplina che studia come “adattare” il soggetto adulto alle situazioni di lavoro in cui è impegnato.”[25] Deve emergere il principio pedagogico del lavoro : “[…] promuovere la crescita e lo sviluppo della persona, in qualsiasi settore e rispetto a qualsivoglia attività produttiva.”[26] Ma un’identità professionale non può realizzarsi senza che prima non si sia già formata un’identità propria. Così come una vera cittadinanza non può prescindere da un intervento pedagogico, che non può a sua volta esimersi dal considerare il lavoro: uno strumento cardine nella reticolarità delle transazioni relazionali lungo l’arco della vita. “Il lavoro è dovere della condizione morale ed esistenziale della persona fisica[…]”[27] ma è anche un diritto per esprimere la propria emancipazione sociale. Non è possibile perpetrare ancora con la tradizione valoriale aristotelica (negativa) che è stata legata alla distinzione tra otium e negotium, perché sulla base di quanto appena detto possiamo dedurre che qualunque lavoro, se fatto con consapevolezza individuale, coerenza, con volontà ed etica, concorre al fine comune più importante, seppur in modo differente in ognuno:  lo sviluppo ontologico del soggetto. Ritengo importante dunque la presenza di una Pedagogia del lavoro, che sia ben distinta epistemologicamente dalla Pedagogia generale, poiché essa indaga in modo più approfondito l’effetto della variabile indipendente (lavoro) sulla variabile dipendente (sviluppo personale), quale punto snodale per lo sviluppo socio-individuale delle persone. Di auspicio è che il focus attuale dell’alternanza scuola-lavoro possa spostarsi dalla sola preparazione professionalizzante dell’alunno alla formazione di un homo si faber ma coltivatore della propria identità in quanto individuo ed in quanto gruppo, nonchè generatore di cultura valoriale ed etica del buon cittadino: un’ agricoltore dell’ humanitas. Con una preparazione che non si basi solo su competenze specifiche(hard skills) di una professione, tra l’altro più soggette ad obsolescenza precoce, ma che abbia un’ottica neoumanista e che sappia generare la dimensione autentica più ampia del Noi, oggi dimenticata. Una formazione al lavoro più distante da una didatticizzazione e più vicino alla dimensione più profonda del soggetto, che sappia utilizzare i modelli economicistici contemporanei, ma che ne sappia prendere anche le distanze, che sia in grado di concepire capacità relazionali senza escludere la dimensione più intima dell’individuo. “Non c’è infatti alcun dubbio che il lavoro umano abbia un suo valore etico il quale senza mezzi termini e direttamente rimane legato al fatto che colui che lo compie è una persona”.[28] Che non si dimentichi soprattutto, ricordando Kolb che è sempre l’intenzionalità del soggetto che si esplica in una tensione esterna, chiamata azione, che realizza a sua volta un’esperienza e che genera conoscenza. “Possiamo dire che la conoscenza è il risultato dell’avere esperienza e trasformarla.[…] l’apprendere richiede sempre e comunque la presenza di una rappresentazione figurativa del mondo e la trasformazione attiva di quella stessa rappresentazione che segue al contatto col mondo stesso[…].”[29] Lungi dal considerare quindi attraverso la metodologia dell’alternanza l’alunno, nella veste del lavoratore, che subisce passivamente un’addestramento al lavoro e che sia quest’ultimo a modificarne foggia ed animo. Al contrario invece un’educazione professionale che mantenga i principi dell’educazione liberale sarà “considerata autentica per il suo carattere «disinteressato»[…]- impedendo- l’integrazione conformista del lavoratore alla società dei consumi, mantenendone salde ed aperte le energie intellettuali, etico-affettive, estetiche[…]”[30] Egli si trova già in uno stato d’ interazione con gli altri, con una personale rappresentazione-conoscenza-verità sul mondo circostante, e che proprio per il tramite del lavoro, cerca e trova la sua collocazione nel sociale, fuori dallo stato di natura , andando ben oltre l’effimera ricerca di un’esclusiva produzione finale tangibile e spendibile. La formazione al lavoro non può che passare quindi attraverso la formazione dell’uomo morale, riconoscendo nell’attività tutti i suoi diversi aspetti più umani, lasciando al seguito tutto il resto. Perché il lavoro non è altro che fonte di umanizzazione e motore di sviluppo della società.

Bibliografia e sitografia

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Valentina Camporeale, laureanda in scienze dell’educazione presso l’università di Padova, con pregresse esperienze in attività di docenza presso istituti professionali e di tutoraggio presso corsi di formazione professionale. Ha conseguito un perfezionamento annuale in “Teorie e Tecniche d’integrazione per alunni con handicap sociale e di apprendimento: indirizzo area disciplinare Tecnica della scuola Secondaria”, presso l’Università per stranieri Dante Alighieri di Reggio Calabria.
Ha preso parte a due conferenze internazionali come relatrice nelle sessioni parallele: “Promuovere l’apprendimento attraverso la valutazione: Feedback e Technology-Enhanced Assessment all’università” (Padova, 13-14 novembre 2018) e “First International conference of the journal Scuola Democratica. Education and post democracy “(Cagliari, 6-8 giugno 2019).

 

[1] J.J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, a cura di E. Nardi, Anicia, Roma 2017, pp. 259-260.

[2] G. Alessandrini, La pedagogia del lavoro. Questioni emergenti e dimensioni di sviluppo per la ricerca e la formazione, in “Education Sciences & Society” 3(2), 2012, p.3.

[3] J.J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, cit., p. 232.

[4] Ibidem.

[5] Ivi p. 285.

[6] Miur, Iscrizioni on line, comunicato stampa del 31/01/2019, https://www.miur.gov.it/web/guest/-/iscrizioni-on-line. Il trend in costante crescita dal 2014/2015, si conferma anche per le iscrizioni dell’anno scolastico 2020/2021, con il 56,3% delle preferenze per i Licei.

[7] Per appronfondimenti: G. Bertagna,  Alternanza Scuola Lavoro. Ipotesi , modelli, strumenti dopo la riforma Moratti, Franco Angeli , Milano 2004.

[8] Tratto dal Comitato per il progetto culturale della C.E.I. , Per il lavoro. Rapporto-proposta sulla situazione italiana, Laterza, Bari 2013, p.52 in E. Massagli, Alternanza formativa e apprendistato in Italia e in Europa, Edizioni Studium, Roma 2016, p. 114.

[9] Ivi p. 122. Si legga: Linee guida per il passaggio al nuovo ordinamento(decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n 87, articolo 8,comma 6), 2010,24.

[10] “Il modello dell’alternanza scuola lavoro intende non solo superare l’idea di disgiunzione tra momento formativo ed operativo, ma si pone l’obiettivo più inciso di accrescere la motivazione allo studio e di guidare i giovani nella scoperta delle vocazioni personali, degli interessi … arricchendo la formazione scolastica con l’acquisizione di competenze maturate “sul campo”.” Tratto da MIUR,  Attività di alternanza scuola lavoro. Guida operativa per la scuola, Roma Ottobre 2015, p.12.

[11] Ibidem.

[12] J.J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, cit., p. 290.

[13] R.D. Di Nubila, M. Fedeli,  L’esperienza: quando diventa fattore di formazione e di sviluppo, Pensa MultiMedia, Lecce 2010, p. 60.

[14] J.J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, cit., p. 260.

[15] AlmaLaurea, XXI Indagine (2019) - Profilo dei Laureati 2017, 4.2 Background formativo, https://www.almalaurea.it/universita/profilo/profilo2017

[16] E. Massagli, Alternanza formativa e apprendistato in Italia e in Europa, p. 186.

[17] G. Alessandrini, La pedagogia del lavoro. Questioni emergenti e dimensioni di sviluppo per la ricerca e la formazione, p.3

[18] B., De Serio, Il “buon” lavoro nella storia della pedagogia. Un breve excursus storico sull’alternanza scuola-lavoro, in MeTis,  Anno VII - Numero 1 - 06/2017.

[19] Indagine AlmaDiplomi, Quattro diciottenni su 10 pentiti della scelta delle superiori. Il successo dell’alternanza, in “Corriere della sera”,  30 Gennaio 2019, url: shorturl.at/lpwER.

[20] G. Alessandrini, La pedagogia del lavoro. Questioni emergenti e dimensioni di sviluppo per la ricerca e la formazione, p. 4.

[21] D. Nicoli, Istruzione e formazione tecnica e professionale in Italia. Il valore educativo e culturale del lavoro, LAS, Roma 2011, p. 129

[22] G. Ballarino, D. Cecchi, La Germania può essere un termine di paragone per l’Italia? Istruzione e formazione in un’economia di mercato coordinata, in Rivista di politica economica1, 39-74, 2013, p. 47.

[23] G. Alessandrini, La pedagogia del lavoro. Questioni emergenti e dimensioni di sviluppo per la ricerca e la formazione, p. 11.

[24] Ibidem.

[25] Ibidem.

[26] Ivi p.12.

[27] Ivi p.4.

[28] Enciclica Laborem Excercens, in G. Alessandrini, La pedagogia del lavoro. Questioni emergenti e dimensioni di sviluppo per la ricerca e la formazione, par. 9.

[29] R.D. Di Nubila, M. Fedeli,  L’esperienza: quando diventa fattore di formazione e di sviluppo, Pensa MultiMedia, Lecce 2010, p. 61.

[30] G.M. Bertin, Educazione alla ragione. Lezioni di pedagogia generale, seconda ristampa, Armando Editore, Roma 1971, p. 266.