Valutazione è potere | Evaluation is power

DOI: 10.5281/zenodo.8154497 | PDF | Educazione Aperta 13/2023

Tizio si iscrive a un corso di cinese. Ha un interesse molto forte per il pensiero cinese, ma si è accorto che qualsiasi progresso in questo campo sarà limitato senza una qualche conoscenza della lingua. Contatta una insegnante privata, che gli fa lezione due volte a settimana. Dopo un mese di lezioni l'insegnante lo sottopone a una prova per testare i suoi progressi. Tizio è un po' in ansia, ma mai si sognerebbe di falsare i risultati di quella prova o di prendersela con la docente per un brutto voto. Può essere che si intristisca se l'esito non è positivo, traendo qualche conclusione. Potrebbe accorgersi di non essere realmente motivato, o che il metodo usato dall'insegnante non è il più adatto.

In questo caso abbiamo un rapporto libero tra un insegnante e uno studente, guidato dall'interesse del secondo. Rientra in quella che Tolstoj chiamava formazione culturale e che distingueva, per l'assenza di manipolazione, dall'educazione. Un simile libero rapporto può avere successo o fallire, ma in ogni caso qui la valutazione non costituisce un problema. È uno strumento al servizio di un fine liberamente scelto dallo studente: l'apprendimento della lingua cinese.

Scrive Cristiano Corsini ne La valutazione che educa (FrancoAngeli, Milano 2023), di cui quanto segue costituisce una nota a margine più che una recensione: "Come e più di ogni altra faccenda educativa, la valutazione è una forma di gestione del potere" (p. 12). Difficile dargli torto, ma bisogna ragionare su quale forma di potere sia. La nostra insegnante di cinese ha il potere di far fiorire una certa conoscenza nel suo studente. Far fiorire è un potere, innegabilmente. Ma non si darà per questo arie particolari; se non ci sono altre circostanze a sconsigliarlo, possiamo immaginarci che lei e lo studente (o la studentessa) si diano del tu senza alcuna difficoltà. Il potere scolastico non è di questo genere, perché radicalmente diversa è la situazione. A scuola non c'è alcun libero rapporto tra studente e insegnante. Lo studente è, fino a sedici anni, semplicemente obbligato ad andare a scuola. Dopo i sedici anni in teoria frequenta volontariamente; di fatto è spinto dalla famiglia, dalla convenzioni, dalla paura del futuro. In ogni caso non ha alcuna possibilità di scegliere i suoi insegnanti. Ed è costretto a studiare cose per le quali non prova spesso alcun interesse in un ambiente nel quale è sottoposto a una costante sorveglianza e a continue indicazioni imperative sul suo comportamento. In un contesto, cioè, educativo nel senso deteriore che Tolstoj attribuiva al termine: ossia manipolativo.

Se il potere dell'insegnante di cinese è un potere che fa fiorire, il potere dell'insegnante scolastico è ambiguo. Ha anch'esso la potenzialità di far fiorire, cosa che spesso accade anche, perfino a scuola. Ma è con lo studente in un rapporto asimmetrico, non libero, sporcato costantemente da cose come la minaccia della punizione o la punizione stessa. È un potere cui si chiede ambiguamente di includere, ma anche di selezionare. È un genere di potere che sta tra quello di chi si prende cura e quello di chi giudica e punisce. Il problema politico della scuola è tutto in questa ambiguità. E a questa ambiguità è appeso il problema del voto, uno dei principali nodi della scuola.

Con una metafora efficacissima, Corsini individua quattro regimi politico-valutativi: la monarchia assoluta, nella quale chi valuta lo fa senza nemmeno chiarire il perché di quella valutazione; la monarchia costituzionale, nella quale chi valuta lo fa avendo cura di chiarire i criteri di valutazione; la democrazia rappresentativa, in cui a chi apprende "viene conferita voce in capitolo rispetto alla scelta dei contenuti (argomenti) e del momento della valutazione" (p. 18); la democrazia partecipativa, nella quale "sono studentesse e studenti a elaborare giudizi sulle prestazioni proprie o altrui" (p. 19). A dire il vero definirei democrazia diretta questa quarta modalità, definendo invece partecipativa una modalità valutativa che coinvolga lo studente, il singolo docente e la classe intera, giungendo a una valutazione il più possibile condivisa da tutti. Una modalità che costituisce da qualche anno il mio modello valutativo.

Quale modello valutativo userà l'insegnante di cinese? Lo studente si è rivolto a lei perché le riconosce una competenza in ciò che vuole studiare. Ma proprio perché è motivato ad apprendere, è fondamentale che l'insegnante non si limiti a dargli un voto, ma gli dica esattamente cosa ha sbagliato e in che modo può migliorare. Se è una buona insegnante, coinvolgerà lo stesso studente nella valutazione. Quanto impegno ci ha messo? Che difficoltà ha incontrato? Come e quanto il cinese sta entrando nella sua vita quotidiana? Questa è, in sostanza, quella che Corsini chiama valutazione che educa. Detto con le sue parole: "la valutazione che educa può essere definita un processo che consente di formulare un giudizio di valore emesso sulla distanza rilevata tra una situazione auspicata e una effettivamente riscontrata e finalizzato all'assunzione di decisioni volte alla riduzione di tale distanza" (p. 35). È esattamente quello che accade in una situazione di formazione culturale. Perché a scuola invece una proposta come quella di Corsini - la proposta di valutare in questo modo - diventa quasi una provocazione? Perché quella della scuola è una situazione di apprendimento artificiale. Una situazione nella quale chi è seduto a un banco - e perché poi non seduto su un banco, o a terra? - segue lezioni che non ha scelto su temi che non ha scelto con insegnanti che non ha scelto. E questi temi deve studiarli, che gli piaccia o no. Credo di poter definire una simile situazione una situazione di violenza.

Immaginiamo che il nostro studente abbia voti eccellenti in tutte le discipline. Può essere che abbia un interesse reale per tutte le discipline e per tutti gli argomenti affrontati in tutte le discipline. Non è impossibile; però è raro. Perfino il docente, che si suppone sia appassionato della disciplina che insegna, ammetterà, se è onesto, di non provare la stessa passione per tutti gli argomenti che propone agli studenti. E forse su tutti non è ugualmente preparato; e su alcuni forse le sue lezioni, se fossero valutate numericamente, non raggiungerebbero un cinque.

Possiamo ragionevolmente credere, dunque, che siano pochi gli studenti con un interesse così ampio. Molti di meno di quelli che raggiungono buoni voti in tutte le discipline. Che succede in questo caso? Come fa il nostro studente a prendere comunque otto o nove in tutte le discipline? Semplice: studia anche in mancanza di interesse. Se si dovesse definire la sua competenza, la si potrebbe descrivere così: svolgere qualsiasi compito assegnato, anche in mancanza di interesse, facendo esattamente ciò che viene richiesto. È questo, e non altro, che misura una valutazione eccellente in tutte le discipline. Di che competenza si tratta? La scuola respinge con sdegno l'idea di essere il luogo in cui si prepara al mondo del lavoro. Essa pretende di essere, invece, palestra di pensiero critico. Ma questa competenza è invece esattamente ciò di cui ha bisogno il mondo del lavoro. A dire il vero non tutto. Si pensa troppo male del mondo del lavoro se si ritiene che ovunque servano questi esecutori assoluti, indifferenti al pensiero e all'interesse. Servono tuttavia in alcuni contesti. È questa competenza che si richiede allo stesso docente, ad esempio, quando gli si impone di compilare documenti burocratici assolutamente idioti, inutili, folli.

Dietro una eccellenza diffusa c'è dunque un approccio finto al sapere. Forse perfino una assoluta indifferenza ad esso. C'è un atteggiamento puramente procedurale. La vocazione ad essere, per dirla con Michelstaedter, "un degno braccio irresponsabile della società". L'esatto contrario del mitico pensiero critico. Quando prendo una classe nuova spiego agli studenti (poi mi toccherà spiegarlo ai genitori; rinuncio a spiegarlo ai colleghi) che considero desiderabile una curva dei voti altalenante: un 8 seguito da un 6, magari da un 5; e poi ancora un 7. Perché, spiego, è così che funzioniamo. È così che funziona il nostro interesse, che non è ugualmente attratto da tutto, e che non può essere messo fuori gioco in una faccenda che ha a che fare col piacere, come lo studio; ed è così che funzioniamo noi in generale: perché a volte siamo stanchi, o presi da altro, o annoiati. Non siamo macchine che sfornano prestazioni eccellenti. Gli studenti annuiscono, poi qualcuno alza la mano. E mi fa notare che è vero, è verissimo. Ma la società chiede i voti alti. Lasciamo perdere i genitori, con quelli ci si ragiona. Ma le università, ad esempio, tengono gran conto del voto del diploma. E non è che gli si può dire che il professore non aveva grande simpatia per la linea fissa dell'8 o del 9.

Le pratiche valutative di cui parla il libro di Corsini possono servire a diminuire l'assurdo quotidiano della scuola. Una valutazione che serva non a giudicare o classificare, ma a migliorare, e che sia dunque parte dello stesso processo di insegnamento, è più sensata, e dunque rende più sensata (o meglio: meno insensata) la scuola stessa. Così come più sensati sono i compiti autentici: un conto è chiedere allo studente di portare all'interrogazione questo o quel filosofo, un altro è chiedergli di scrivere un saggio filosofico per il giornale di classe. Ma a monte è necessario che cambi, nella scuola e fuori dalla scuola, la cultura della piramide, che è il modello in base a cui strutturiamo tutti gli ambienti sociali. Ovunque sentiamo il bisogno di porre qualcuno al vertice, qualcuno più in basso, qualcuno alla base (e qualcuno proprio fuori dalla piramide). Nei consigli di classe già in autunno si procede spesso alla divisione per livelli: i bravi, necessariamente pochi; i meno bravi; i non bravi (che in qualche caso sono perfino poco scolarizzati). Offriamo alla società questa piramide, sicuri di aver fatto per bene il nostro lavoro. La società la raccoglie con un misto di soddisfazione e scetticismo. Soddisfazione, perché quello schema è lo stesso della società, lo stesso che lo studente troverà replicato infinite volte, come un frattale; scetticismo, perché lo sanno tutti che la posizione in quella piramide dice poco sulle competenze e conoscenze reali.

"Esiste un modo migliore di concepire la valutazione, l'insegnamento e i rapporti tra esseri umani", scrive Corsini a conclusione del suo libro. Quella dei rapporti tra esseri umani è la dimensione decisiva. La scuola struttura l'insegnamento e, di conseguenza, la valutazione partendo da una certa concezione dei rapporti umani. Una concezione che è ancora segnata dalla lunga storia dell'istituzione, nonostante le diverse stagioni della critica e della contestazione. Per chi ha la volontà, la consapevolezza e il coraggio di trasformare la propria relazione con gli studenti, il libro di Corsini può essere un utile strumento.

Foto di Taylor Flowe su Unsplash