Intellettuali, lavoro scolastico e mobilità: voci per una autobiografia collettiva

La scuola risuona con diverse modulazioni nella tastiera tematica di Mario Isnenghi e il suo ultimo libro dà l’idea di un dialogo coltivato da tempo. Viene da ripensare, per esempio, alla sua Storia d’Italia Laterza del 2011, con sottotitolo I fatti e le percezioni dal Risorgimento alla società dello spettacolo: come se in quel volume di 650 pagine fosse nascosto un altro libro potenziale, ora venuto alla luce come Autobiografia della scuola (Il Mulino, 2025). È solo un dejà vu, un’impressione del lettore che proietta queste nuove pagine sulle precedenti. Però è vero che si ritrovano alcuni fuochi d’interesse: altre volte lo storico veneto ha dedicato la propria attenzione a coloro che, prestando servizio nel sistema dell’istruzione pubblica, hanno svolto il proprio curriculum nel segno della mobilità – se il libro ha un centro sono proprio le pagine dedicate a queste itineranze – cogliendo occasioni di contatto con il mondo, partecipando alla messa a punto di identità collettive e interdipendenze sociali, negoziando su simboli, appartenenze e fedeltà. Professori e maestri lo hanno interessato nel farsi organizzatori culturali carismatici, autorità morali, mentori, ma talvolta ci si ritrova con altrettanto interesse a seguire le tracce lasciate (anche) nella scuola da uomini e donne più o meno illustri, non necessariamente vocati a compiti di guida pedagogica o letti come tali. Una direzione ulteriore di esplorazione si è mossa attraverso la stratificazione di letture sedimentate in biblioteche pubbliche e private, a testimonianza di una dialettica mai scontata fra scelte formative, consumi culturali e posizioni sociali.
In questa Autobiografia che va, dichiara il sottotitolo, da De Sanctis a don Milani – ma accelera verso la fine –, il primo scorcio mostra le transizioni dell’Italia risorgimentale e il personale scolastico a cavallo fra continuità e discontinuità, fra vecchie e nuove fedeltà istituzionali, fra iniziative laiche e resistenze cattoliche, con tutti i reciproci accomodamenti nel gioco dei rapporti di forza. La casistica scelta fra gli educandati e gli istituti femminili, che oppongono la loro riottosità ai riformatori chiamati ad occuparsene, apre la questione più generale della qualità e quantità di istruzione della quale ci si accontenta per le ragazze: il che non riguarda solo le mentalità più tradizionaliste e radicate nell’antico regime, per i percorsi femminili e femminilizzati l’accontentarsi è abito che si direbbe trasversale e persistente. Il versante femminile della storia della scolarizzazione e dell’acculturazione di massa degli italiani è guardato da più lati, che siano i percorsi delle corrispondenti che popolano i carteggi di Fogazzaro o i profili di intellettuali note alla storia della letteratura per l’infanzia come Virginia Tedeschi Treves o Erminia Fuà Fusinato, e non è secondario nemmeno nella ricognizione che attraversa l’esplosione narrativa di metà anni Ottanta dell’Ottocento, quando sulla scuola e la classe magistrale si stratificano rappresentazioni più dense e sfaccettate – dalle riviste magistrali alla Scuola normale femminile di Serao, dai riverberi del caso di Italia Donati al De Amicis di Cuore, de Il romanzo di un maestro e poi di Primo maggio.
La circostanza di doversi spostare per insegnare, in vista o meno di un approdo auspicato in licei più centrali o cattedre universitarie, può essere vissuta con diverse disposizioni d’animo, ci sono tanti modi di farsene una ragione: comunque alimenta bisogno e occasione di scrittura. Da questi “viaggi in Italia” ci si può aspettare esperienze di decentramento culturale a contatto con mondi altri; tentativi di non perdere i legami con il “centro” – qualunque cosa ciò significhi rispetto al vissuto e alle aspirazioni di ciascuno – o di fecondare la vita culturale della propria destinazione periferica a dispetto della carenza di biblioteche, risorse e contatti; a volte l’insoddisfazione spinge a sollecitare interventi abbastanza autorevoli da pesare su designazioni e spostamenti e fa vibrare gerarchie di patronage fra persone colte, rendendone manifesti i funzionamenti latenti; e molto altro. Dal più noto itinerario di Augusto Monti a Le lettere provinciali di Dino Mantovani (qui eletto rappresentante di coloro che all’esilio non si sanno rassegnare: poi troverà una strada facendosi studioso di Nievo ed eclettico promotore di cultura); dall’apertura esuberante al mondo di Angelo De Gubernatis agli esordi siciliani di Manara Valgimigli sulla scia di Pascoli e Carducci, la scrittura densa di Isnenghi mostra quale trama sociale si tende fra i picchetti topografici che la scuola fa trovare già piantati sul terreno, non marginalmente riferendosi al modello della Geografia e storia della letteratura italiana di Carlo Dionisotti, con l’effetto di vedere una cartografia di relazioni intellettuali sovrapporsi su quella amministrativa.
L’obiettivo poi si sposta sugli anni della fascistizzazione della scuola, passando in rassegna gli annuari scolastici e i loro effetti sul calendario civile che si va affermando; progetti e trasformazioni di antologie nuove e di più lungo corso, compreso il caso del testo unico per le elementari; i diari scolastici come fonte di un io che trova spiragli per affiorare mentre collabora alla costruzione di un noi prescritto. Ai professori universitari Isnenghi torna individuando tre riferimenti periodizzanti nella storia del loro consenso al regime. Il primo è il giuramento richiesto loro nel 1931: successo del regime nel normalizzare la polarizzazione che era venuta fuori nel 1925 con i due manifesti rivali di Gentile e Croce, naufragio della pretesa autonomia della corporazione. Poi il vuoto impressionante (vuoto di reazione, ma anche peggio) in cui cadono le leggi razziste del 1938 e, come terzo punto di cesura, l’epurazione, stavolta, dei docenti compromessi con il fascismo dopo il 1943-45.
Fin qui la lettura di questo vasto campione di voci dalla scuola è illuminata anche da uno sguardo simpatetico con i propositi e i valori che al fondo unificano l’autocoscienza collettiva del corpo degli insegnanti, convergente con il senso che, al netto dei conflitti, essi danno alla trasmissione della cultura per via scolare. La rapida rassegna sul secondo Novecento prende meno luce da questo sguardo, come se ora rinunciasse alla presa sull’oggetto. Le voci scelte fra le fonti della cultura magistrale e professorale si vanno facendo più disincantate, critiche, irriverenti o disperate fino al cinismo: il precipitato che viene a galla fa pensare a una soluzione che si è saturata, come se quel po’ di autosuggestione di cui qualsiasi fede nella scuola non può far senza fosse un solvente che si è denaturato, perdendo capacità di trattenere il soluto, a contatto con i reagenti della società di massa. Ed ecco ad esempio L’elogio di Franti di Umberto Eco (1963) letto “come irridente affossamento di Cuore e del riformismo scolastico”, posizione fra le altre rivelatrice degli impliciti che orientano lo sguardo sulla crisi. Il paradosso di un don Milani visto come compimento sotto diverse spoglie del progetto di padre Gemelli si mette sulla scia di altre riletture di questi anni facendone simbolo di un’egemonia clericale altra e in definitiva, anche al di là delle intenzioni, antiscolastica in quanto antiborghese. Riprendere queste sollecitazioni potrebbe anche servire ad alimentare una discussione franca, a guardare con curiosità certi schemi che operano nei modi in cui pensiamo storicamente la scuola, a ricomprenderli nella riflessione storiografica. Ma sono poche pagine in coda a un libro che ha mostrato diversi modi in cui si può fingere e comprendere la scuola come autore collettivo; alla fine, se ne esce come da una porta laterale.
L'autore
Vincenzo Schirripa insegna Storia dell’educazione e della scuola all’università LUMSA di Palermo e fa parte della Comunità di ricerca “Educazione Aperta”. Fra i suoi lavori più recenti: Insegnare ai bambini. Una storia della formazione di maestre e maestri in Italia, Carocci, Roma 2022.